giovedì 22 giugno 2017

Il canto dei mietitori

il Canto dei mietitori, conosciuto almeno quanto quello dei minatori, merita qualche corollario esplicativo, sia storico che memorialistico.
Chi sono questi mietitori “venuti di molto lontano, /scalzi, cenciosi, con la canna in mano”? C’erano in effetti alcune aree della Sicilia, tra le più povere e arretrate, che nei momenti cruciali della raccolta del grano duro, prima dell’avvento della meccanizzazione, esportavano mietitori, che migravano attraverso l'isola. Il "molto lontano", dunque, quasi sempre interno alla Sicilia stessa, è tale per la lentezza degli spostamenti.
Nelle aree di più intensa produzione cerealicola, nel brevissimo torno di tempo del raccolto, era in ogni caso difficile trovare manodopera sufficiente nel mercato locale, anche perché erano molti i braccianti-contadini che, giustamente, prima di mietere il grano altrui, si mettevano all’opera nel proprio campicello. Ma se si considera l'intera Sicilia, in ragione di diverse altitudini e microclimi, la raccolta del grano durava anche un mese: si cominciava a metà giugno e si finiva a metà luglio e oltre. Da qui la presenza numerosa in molte località, anche al mio paese, di codesti mietitori migranti che si spostavano da un luogo all’altro portando seco lo strumento di lavoro e un fagotto legato a una canna con le loro povere cose. Niente, in genere, cappellini di cotone o pagliette; come copricapo i più usavano fazzoletti non dissimili da quelli che si adoperava per raccogliere moccio e sternuti.
Li chiamavamo, oltre che mititura, mudicani, perché da Modica provenivano i più tra loro. Concludendo la loro giornata di lavoro (ch’era cominciata alle cinque del mattino) intorno alle due del pomeriggio, non pochi di loro si sdraiavano per terra in uno spazio ombreggiato non lontano dalla piazza principale. Sostavano lì anche per addruvarisi a caporali o piccoli proprietari, “affittarsi”, dal francese allouer, come s’addruvanu le case o altri oggetti. Facevano un po’ d’impressione, con i vestiti cenciosi, le barbe lunghe, i fazzoletti, le falci. Le mamme e le nonne per evitarci la canicola nelle ore più calde ci raccomandavano di non uscire di casa perché in giro c’erano li mudicani. I mietitori acquistavano dunque lo stesso valore di spauracchio che avevano gli zingari ( zanni) o i gruppi di protestanti che arrivavano da Riesi e Sommatino (vangilisti).
Il “canto dei mietitori” di Rapisardi ha toni, da una parte di denuncia dall’altra di rivolta, che sembrano estranei ai veri “canti della mietitura” documentati dal folclore, ove sembra prevalere l’elemento religioso-rituale. Ma le cose sono forse un po’ più complicate.
Mi capitò da giovane di accompagnare come amico Peppino Smiraglia nella raccolta dei canti di lavoro per la sua tesi di laurea. Non posseggo la trascrizione, ma ho assistito ad una performance sui canti che accompagnavano l’opra, il gruppo organizzato dei mietitori. Ricordo l’inizio, Sia ludatu e ringraziatu ogni momentu lu santissimu e divinissimu Sagramentu, la cui solennità era sottolineata dal Sagramentu ripetuto ben tre volte. Ricordo lunghissime tiritere, anch’esse a sfondo religioso, in cui spiccavano due espressioni, capu di spata e capu di bruera: mi spiegavano trattarsi dei mietitori che ai due capi aprivano e chiudevano l’opra. Ma il cantare dei mietitori non era tutto qui, comprendeva anche degli “assolo”, dei mottetti di tutt’altro carattere.

Il canto dei mietitori

La falange noi siam dei mietitori
e falciamo le messi a lor signori.

Ben venga il Sol cocente, il Sol di giugno
che ci arde il sangue e ci annerisce il grugno
e ci arroventa la falce nel pugno,
quando falciam le messi a lor signori.

Noi siam venuti di molto lontano,
scalzi, cenciosi, con la canna in mano,
ammalati dall'aria del pantano,
per falciare le messi a lor signori.

I nostri figlioletti non han pane
e, chi sa?, forse moriran domane,
invidiando il pranzo al vostro cane...
E noi falciam le messi a lor signori.

Ebbro di sole, ognun di noi barcolla
acqua ed aceto, un tozzo e una cipolla
ci disseta, ci allena, ci satolla,
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Il sol cuoce, il sudore ci bagna,
suona la cornamusa e ci accompagna,
finché cadiamo all'aperta campagna.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Allegri o mietitori, o mietitrici:
noi siamo, è vero, laceri e mendici,
ma quei signori son tanto felici!
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Che volete? Noi siam povera plebe,
noi siamo nati a viver come zebre
ed a morir per ingrassar le glebe.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

O benigni signori, o pingui eroi,
vengano un po' dove falciamo noi:
balleremo il trescon, la ridda e poi...
poi falcerem le teste a lor signori.


Autore: Mario Rapisardi

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