martedì 18 luglio 2017

Quando un kg di pesche costava piu' di un'ora di manodopera

In questi giorni si è parlato molto dei prezzi (bassi) delle pesche e delle nettarine. Visitando alcuni mercati all'ingrosso, parlando con alcuni agricoltori e direttore di cooperative, abbiamo avuto conferma di quanto si dice da tempo, vale a dire che c'è una fascia di prodotto che viene remunerato bene, e un'altra che è in crisi.

I grossi calibri, specie di varietà buone da mangiare, confezionati, spuntano prezzi che danno un minimo di soddisfazione agli agricoltori. Il prodotto indifferenziato, quello che molti raccolgono magari in una sola passata nei bins, coltivato in modo da ottenere la massima resa, spesso viene liquidato a un prezzo che non copre neppure i costi di produzione.

Nei primi anni '60 la frutta prodotta in maniera professionale era merce rara. Erano poche le zone al mondo che potevano vantare la professionalità dell'Emilia-Romagna. Lo dimostra un fatto. "Anche allora c'erano le crisi, ma ad esempio un chilo di Cardinal (varietà di pesche gialle) costava 125 lire e un operaio si pagava 118 lire all'ora”.

Al netto del fatto che le rese a ettaro di allora erano inferiori a quelle odierne, oggi, per essere al livello di allora, le pesche dovrebbero costare attorno ai 10 euro il kg.
Al di là di queste memorie, cosa si potrebbe fare per evitare il ripetersi di queste crisi? Non può esserci una risposta univoca. Di certo gli scenari sono cambiati in maniera radicale. Oggi in tantissime nazioni si produce frutta estiva, quasi sempre di buona qualità e quasi ovunque a costi inferiori di quelli italiani.

Una prima carta da giocare, con i consumatori, potrebbe essere quella dei residui. Il prodotto italiano è molto più controllato rispetto a quello estero. Non sempre, ma spesso è così. Non c'è uniformità con i principi attivi: in alcune nazioni alcuni si usano, in altre no. In Italia è sempre no.

Seconda carta: ci vorrebbe più spirito nazionale. Francia e Germania danno la precedenza ai prodotti nazionali e solo dopo lasciano il via libera alle importazioni. In Italia succede il contrario: il nostro è un mercato aperto a tutti, chiunque può importare e da qualsiasi Paese. Invece tanti prodotti italiani all'estero non possono andare.

Terza carta: produrre di meno per guadagnare di più. Non a tutti può andare a genio questo ragionamento, ma è un passo da fare. Se il mercato paga i grossi calibri e di varietà valide dal punto di vista organolettico, si deve produrre un prodotto grosso e buono. Non ci sono alternative. E ciò è possibile farlo, ma occorre cambiare mentalità, varietà, potatura, diradamento.
Quarta carta: selezionare in base alla qualità organolettica. Sembra difficile, ma aziende come Unitec hanno tecnologie già collaudate in questa direzione "Sulla pianta ci sono 35 tipologie di qualità differenti - ha affermato poco tempo fa Angelo Benedetti di Unitec quindi possiamo avere 35 tipi di consumatori differenti. Pezzatura, calibro, colore e difetti esterni: al momento in Italia ci sono solo 4 parametri principali di differenziazione e nessuno legato al gusto voluto dal consumatore".

Quinta carta: perché non fare una ultra-specializzazione, vale a dire frutteti coltivati e gestiti solo per l'alta qualità dei mercati che pagano (con tutte le pratiche agronomiche che ne conseguono) e altri più per un prodotto di massa con raccolte a una sola staccata?

Sono proposte concrete, che potrebbero avere un futuro. Considerato che negli ultimi 20 anni di cambiamenti non ce ne sono stati, se non l'aumento degli anni di crisi, forse vale la pena cambiare. A volte, anche qualche testa.

Fonte: FreshPlaza

Autore Cristiano Riciputi

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