Dalla Sardegna con furore. Il latte ovino versato a quintali
dai pastori dell’isola ha bucato il video degli italiani, agitato le acque
della politica nazionale e regionale (alla vigilia delle elezioni) e mandato un
messaggio inequivocabile: è possibile ottenere un prezzo minimo di una
produzione agricola per decreto, in questo caso 72 centesimi/litro “altrimenti
ci arrabbiamo”. E’ possibile ottenere tavoli tecnici con ministri e
vicepresidenti del Consiglio dove si deliberano interventi, aiuti (ritiri) per
decine di milioni di euro per salvare un pezzo importante dell’economia
regionale “altrimenti ci arrabbiamo”. E’ possibile far valere le proprie
ragioni e ottenere un risultato importante, forse insperato, semplicemente
arrabbiandosi, tenendo duro, dimenticando le buone maniere. E facendo leva solo
sulla propria esasperazione.
E non a caso l’esempio ha fatto subito scuola risvegliando i
‘forconi’ siciliani (si chiamano ancora così?) che hanno cominciato a buttare
per strada il grano duro perché sottopagato. Da qui a invocare la chiusura
delle frontiere all’import di grano straniero manca poco e pazienza se poi
all’industria pastaria manca la materia prima per produrre spaghetti e
maccheroni.
In Sardegna l’allevamento ovi-caprino è quasi una
monocoltura ma la vertenza dei pastori lancia un segnale a tutto il mondo
agricolo nazionale, in particolare al mondo dell’ortofrutta. Che è certamente
più articolato, più frazionato e diffuso sull’intero territorio nazionale, più
ricco di alternative produttive però afflitto dal medesimo problema: i prezzi
bassi all’origine, quasi sempre al limite della sopravvivenza economica, se non
sotto.
Così è in questo periodo per il mondo delle clementine
pugliesi e calabresi reduci da una campagna disastrosa, l’ennesima. Così è stato
recentemente per tanti ortaggi invernali, e per tante estati per
pesche/nettarine forse la nostra produzione più tipica massacrata dai prezzi e
dalla mancata programmazione tra paesi produttori. Anche le pere soffrono di
prezzi non remunerativi al pari di altre nostre eccellenze produttive che non
hanno l’export come valvola di sfogo importante e nuovi mercati da raggiungere.
Del prezzo minimo in ortofrutta si è parlato tante volte di fronte alle crisi
di mercato ma senza crederci per davvero, consapevoli che era un miraggio. I
pastori sardi sono un fronte compatto, poco controllabile dalle sigle
sindacali, hanno in mano la quasi totalità del prodotto, sono una rocciosa Op
di fatto, in grado di bloccare le forniture ai caseifici. L’ortofrutta è un mondo
molto diverso, articolato, frazionato, diviso in sigle sindacali e quasi sempre
incapace di fare lobby. L’esempio più eclatante delle divisioni del mondo
agricolo lo abbiamo visto recentemente per la vicenda della crisi dell’olio
pugliese con i gilet gialli (Coldiretti) e i gilet arancioni (tutti gli altri)
scendere in piazza per gli stessi motivi in due giorni diversi, gli uni dopo
gli altri.
Però…però questa vicenda del latte sardo apre una breccia,
dimostra che con la rabbia qualcosa si ottiene, che non c’è solo lo strumento
dei ritiri (tardivo e spesso inefficace) per salvare una campagna. Certamente
non ci si può più accontentare di chiedere prezzi-elemosine, briciole di aiuti
quando il guaio è già fatto, o di fare come anni fa quando sulle spiagge estive
si distribuirono gratuitamente le pesche (comprate dal Ministero) ai vacanzieri
per spingere i consumi. Un danno oltre
la beffa: ciò che viene dato gratis, non ha valore per chi lo riceve. I pastori
sardi hanno dimostrato – sprecando il latte frutto del loro lavoro – che
piuttosto che svenderlo preferivano buttarlo. Una scelta estrema, che però alla
fine si è rivelata efficace e che ha messo in mora rappresentanze e sigle
sindacali, costrette a correre dietro alla protesta. Il mondo dell’ortofrutta,
che fatica ad ottenere persino una riunione del Tavolo nazionale al Ministero,
è avvisato.
Autore: Lorenzo Frassoldati Direttore del Corriere
Ortofrutticolo
Fonte: Accademia dei Georgofili
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