La vendemmia era uno dei momenti più gioiosi dell’anno;
anche se la fatica c’era ed era intensa, la si superava con l’allegria dei
canti, delle risate, delle stornellate. In questa occasione, come nella
mietitura o nella battitura, si faceva sì che un lavoro faticoso si
trasformasse in un momento di socializzazione, allegro e quasi di evasione:
lavorare al fianco di altre persone estranee al nucleo familiare significava
uscire dall’atavico isolamento materiale della famiglia relegata per quasi
tutto l’anno tra le pareti della propria casa colonica situata al centro
dell’appezzamento da lavorare. Preludio alla raccolta dei grappoli maturi,
nelle strade del paese erano i lavori di pulizia dei tini e delle botti nelle
cantine piccole o grandi; nei giorni precedenti si udiva il rumore del mazzuolo
sulle doghe o sui cerchi per rimettere in sesto quei recipienti che avevano
subito i danni del tempo o dell’uso. Nei campi le ceste si colmavano di uva
bianca o nera che andava poi a riempire i vivaci birocci tirati da coppie di
buoi bianchi. E questi trasportavano l’uva nelle cantine in paese in un
continuo e variopinto via vai. I ragazzini, a frotte, stazionavano per le
strade e, all’arrivo di un carro, vi saltavano sopra afferrando bei grappoli
che mangiavano a morsi rincorsi dai contadini in attesa di scaricare il mezzo
di trasporto. Chi aveva già pigiato l’uva, faceva bollire una parte del mosto
in caldaie di rame annerite dall’uso mentre per le strade circolavano anziani e
non, che, con la pagnotta sotto il braccio, si offrivano di intingere un pezzo
di pane nel caldaio per assaggiare il mosto in ebollizione ed esprimere il
parere sulla qualità del vino cotto che ne sarebbe derivato.
Nasceva una certa ansia in attesa del giorno di s. Martino
quando finalmente si poteva assaggiare il vino nuovo ed accompagnarlo a
qualcuno dei piatti tradizionali dell’autunno e ci si augurava che il vino
fosse “robusto” e si potesse conservare a lungo e non andasse in acìto, cioè
non si inacidisse. Il nesso con il Santo, in verità, era solamente casuale:
l’11 novembre, festa appunto di s. Martino, era considerata in passato
particolarmente importante, quasi una sorta di capodanno, perché quel giorno si
facevano iniziare attività pubbliche e private di rilievo come quella dei
tribunali, delle scuole, il pagamento dei fitti e delle locazioni: insomma
nessuna occasione era migliore di quella per verificare l’antico detto “per San
Martino ogni mosto è vino”: San Martì, ogni mosto diventa vi’ (ovvero San
Martì, rpunni l’acqua e caccia lo vi’) e festeggiare dunque un’importante
ricorrenza, almeno nel passato, con l’assaggio del prodotto proprio della
stagione. Col mosto si facevano dolci legati al periodo: nel Maceratese i
biscotti col mosto, in particolare, che assumono la forma di pani. Tagliati a
fette, queste vengono poi messe in forno e biscottate dando così la possibilità
di una lunga conservazione.
In molti luoghi si facevano invece delle speciali conserve
di frutta: mele e pere venivano ridotte in pezzi o addirittura tagliate
solamente a metà (paccucce), venivano poi seccate al sole o messe in forno e
sistemate in recipienti con il mosto cotto. Data l’abilità specifica degli
abitanti di Colmurano nel produrre queste confetture, questi venivano chiamati
paccuccià.
Il mosto era utilizzato non solamente per i dolci ma anche
per i cibi: caratteristico era il polentone con la sapa, cioè mosto cotto,
denso e dolce. Si usava per la sua preparazione la farina nuova di granturco ed
era quindi un’occasione quasi di festa poter gustare un piatto che,
strettamente legato al periodo, sarebbe stato, poi, pressoché irripetibile. Si
usava anche, in tempi più lontani, inzuppare nel mosto bollente un certo numero
di fichi contenuti in un cesto o corbello. Dopo un’immersione di alcuni minuti,
li si faceva scolare e asciugare e poi li si passava nella farina; in questo
modo si conservavano a lungo ed erano di ottimo sapore.
Era tradizione, inoltre, produrre durante la vendemmia
l’acquaticcio, un vinello leggero che derivava dall’acqua passata attraverso le
vinacce. I contadini ne offrivano un bottiglione come prelibatezza ad amici e
parenti ma doveva essere consumato subito, entro tre giorni, come si
raccomandava, perché altrimenti non si sarebbe conservato (L’acquaticcio, du’
jorni è bbonu e dopo è tristo).
In quasi tutte le case, sia che si avesse una cantina oppure
no, si appendevano alle travi grappoli a coppie, preventivamente scelti con
cura, per farli essiccare e per poterli utilizzare a Natale per creare i dolci
legati alla festività o per mangiare i chicchi il 1° gennaio: era tradizione –
ed è ancora viva – che mangiando a digiuno acini d’uva si avesse la possibilità
di contare i soldi in abbondanza per tutto l’anno. Siccome la tradizione è
legata anche alle lenticchie, sembra di scorgere più che un antico rituale
ricco di significati, semplicemente l’azione del contare i chicchi d’uva ovvero
le lenticchie in analogia con il conteggio delle singole monete.
Tratto da “Dizionarietto delle Tradizioni e del Mangiare”
del sito della Comunità Montana dei Monti Azzurri.
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