Slow Food Italia condanna duramente lo sfruttamento di
braccianti in agricoltura con tutte le sue tragiche conseguenze e da anni si
batte per sensibilizzare la popolazione sull’ignobile corsa al ribasso dei
prezzi che si scarica sulla parte più debole della filiera e porta forme di
schiavitù intollerabili in una società che si dice civile. Le ultime,
drammatiche, vicende di cronaca della morte di 16 lavoratori di origine
africana avvenuti in provincia di Foggia richiamano l’attenzione sul fenomeno
del caporalato: «Una mattanza intollerabile – dice il Comitato esecutivo di
Slow Food Italia a nome di tutta l’associazione – che avviene ormai in modo
palese. Lo Stato deve mettere al centro delle proprie politiche la tutela dei lavoratori,
spesso migranti regolari in Italia alla ricerca di opportunità lavorative e di
un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Lo sfruttamento dei
braccianti agricoli è un fenomeno noto a tutti».
Secondo i dati del rapporto «Agromafie e caporalato»
dell’Osservatorio Placido Rizzotto, sono 400 mila i braccanti agricoli
impegnati nella raccolta di pomodori, di cui almeno 100 mila, cioè un quarto,
subiscono forme di ricatto lavorativo e vivono in condizioni disumane. Lavorano
dalle 8 alle 12 ore al giorno, per una paga media di 3 euro l’ora, il 50 per
cento in meno di quanto previsto dalle norme nazionali. Purtroppo, il fenomeno
dello sfruttamento del lavoro non riguarda solo la Puglia e il pomodoro, ma è
stagionale e tocca altre parti d’Italia, basti pensare alla raccolta delle
arance.
I nuovi schiavi delle campagne italiane sono una delle
conseguenze dello strapotere della Grande distribuzione organizzata nella
commercializzazione di prodotti alimentari, spesso venduti a prezzi inferiori
al costo di produzione. Gli imprenditori agricoli, per salvare le proprie
aziende e non lavorare completamente in perdita, si rifanno sull’ultimo anello
della filiera, il più debole, cioè i braccianti che faticano e sudano nei campi
per pochi euro l’ora, tutti i giorni. Con tutti i rischi che ciò comporta sia
sui luoghi di lavoro, sia nel tragitto verso le bidonville in cui spesso sono
costretti a vivere.
Per uscire da questo circolo vizioso fatto di sfruttamento,
azzeramento dei diritti e violenza, Slow Food Italia propone l’obbligatorietà
del prezzo all’origine: su ogni etichetta deve essere indicato quanto è stato
pagato il prodotto agricolo al contadino, in modo che il consumatore possa
scegliere catene di trasformazione e di distribuzione che privilegino la
remunerazione del lavoro nei campi allo sfruttamento e al nuovo schiavismo.
«Facciamo appello – aggiunge il Comitato esecutivo di Slow
Food Italia – a tutti i consumatori: quando andiamo ad acquistare i frutti
della terra dobbiamo prestare la massima attenzione a non diventare complici di
questo neo-schiavismo, evitando di scegliere sempre le offerte al ribasso o
marchi della Grande distribuzione che praticano politiche dei prezzi aggressive
e non etiche. Quando spendiamo i nostri soldi dobbiamo fare la differenza,
privilegiando aziende e marchi che facciano della sostenibilità e dell’eticità
un pilastro del proprio business. Il cibo deve essere un motore di cambiamento
per la nostra società. Come Slow Food ci crediamo e investiamo tutte le nostre
risorse ideali. Il tema è al centro delle nostre politiche e sarà al centro di
Terra Madre Salone del Gusto, la manifestazione che dal 20 al 24 settembre a
Torino si svolgerà all’insegna dell’espressione #foodforchange, in cerca di un
“cibo per il cambiamento” più equo per tutti».
Fonte: Slow Fodd Italia
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