La Brexit deve
farci riflettere. Non entro nel merito della decisione di un popolo sovrano. La
democrazia si accetta, non si commenta. Fanno pensare, tuttavia, le posizioni
di alcuni leader britannici per i quali “l’Unione è stata una buona idea, ma
non è più giusta per noi”.
L’errore politico
più grave che l’Europa oggi potrebbe compiere è quello di arroccarsi
sdegnosamente nel proprio sé, girandosi dall’altra parte o – peggio ancora –
criticando le scelte di un Paese che forse non ha mai avuto uno slancio
convintamente europeista, ma che fino al 23 giugno scorso ne faceva pienamente
parte.
Lascio valutazioni
di carattere più generale ad altri, limitandomi ad alcune osservazioni in
merito all’agricoltura, materia peraltro che è stata alla base dell’Europa. Se
non l’unica, è stata di certo la più importante, fin dalla nascita del Mercato
economico europeo.
Bisogna
inevitabilmente ritrovare lo spirito costitutivo dei padri fondatori
dell’Europa e adattarlo alle esigenze attuali. Credo che serva più Europa, non
meno. Servono più dialogo e più unità. E, chissà, come ha riconosciuto qualche
analista, che l’uscita del Regno Unito non si riveli l’occasione giusta per
ripensare l’Europa. Un’opportunità, prima che una sciagura.
Quello che è certo
è che bisogna onorare il motto dell’Ue: “United in diversity”. Ritorni l’Europa
dei popoli, dell’autodeterminazione, del confronto, della crescita.
Fino a quando
avremo regole non condivise, non negoziate, magari non soltanto per colpa
dell’Europa, ma innanzitutto perché sono gli Stati a sacrificare le esigenze
delle proprie comunità, allora dovremo aspettarci altre Brexit, altri malumori,
altre divergenze.
La Lombardia è la
prima regione agricola d’Italia, grazie a una rete di oltre 46.000 imprese
agricole. È una delle prime in Europa nel comparto agroalimentare. Può contare
su una produzione lorda vendibile di oltre 7,3 miliardi di euro e di un export
che supera i 5,2 miliardi. I valori al consumo dell’agroalimentare della
Lombardia superano i 38 miliardi di euro. La popolazione della nostra regione è
di oltre 10 milioni di abitanti. Siamo uno Stato, a tutti gli effetti.
Nel 2015, per sei
mesi, Milano è stata la capitale mondiale dell’agricoltura e dell’alimentare,
grazie a Expo: nutrire il pianeta, energia per la vita.
Credo che sia da
qui che si deve ripartire, dal dialogo diretto dei popoli con l’Ue e nell’Ue. È
l’unico modo che può far ripartire il progetto europeo. La Pac nasce nel 1962
con obiettivi ambiziosi e ancora oggi attuali: aiutare gli agricoltori a
produrre quantità di cibo sufficienti per l’Europa; garantire che il cibo sia
sicuro (ad esempio attraverso la tracciabilità); proteggere gli agricoltori da
una eccessiva volatilità dei prezzi e dalle crisi di mercato; aiutarli a
investire nell’ammodernamento delle loro fattorie; sostenere comunità rurali
vitali con un’economia diversificata; creare e conservare posti di lavoro
nell’industria alimentare; tutelare l’ambiente e il benessere degli animali.
Quali passi avanti
abbiamo compiuto e quali oneri l’Europa ha riversato sugli agricoltori? È un
caso che la percentuale più elevata di Leave si sia concentrata nei territori
maggiormente dipendenti, sul piano economico, dall’Unione europea?
Siamo in una fase
di globalizzazione avanzata in cui l’idea di libertà deve rapportarsi con
quella di interdipendenza e di responsabilità. Nessuno, forse, basta più a se
stesso. Nemmeno il Regno Unito della sterlina, della guida a sinistra e del
sistema metrico così diverso da quello europeo.
Non può esistere
un’Europa senza immigrati, ma non possiamo accettare un’Europa di clandestini.
L’Unione europea non può fingere che l’ondata migratoria non sia un’emergenza e
non può abbandonare a se stessi i singoli Stati membri, i quali – come è il caso
dell’Italia – non consultano i territori e magari approfittano, per interessi
economici e intrecci fra malavita ed esponenti del potere politico, per gestire
la crisi senza controlli, non distinguendo tra i rifugiati e tutta una serie di
migranti (economici, climatici, ecc.) che dovrebbero piuttosto essere tutelati
sui loro territori.
La sfida che
l’Unione europea ha di fronte è quella di riconsiderare la Politica agricola
comune, cercando di raggiungere gli obiettivi originari con le modalità più
consone per ciascun territorio e per ogni comunità. Potrà essere forse più
gravoso, ma se vogliamo costruire e non distruggere, se desideriamo sostenere
un modello di agricoltura chiamato a confrontarsi con il mondo intero, con
l’incremento della popolazione europea e mondiale, con le esigenze di food
security e food safety, non possiamo non adeguare le modalità di confronto
interno all’Ue.
In che modo?
Procedendo per Regioni omogenee, per vocazioni produttive, per sistemi
riconosciuti. Le Regioni dovranno inevitabilmente ottenere l’autorizzazione a
creare alleanze, a negoziare, a condividere un percorso per ottenere più
Europa, più rappresentanza, più futuro.
Le sfide alimentari
non saranno insormontabili, se ci sarà la giusta cooperazione fra le Regioni,
finalizzata al progresso, all’innovazione, all’eliminazione della burocrazia
barocca, doppia, inutile. Questo non significa assenza di controlli, ma
rapidità di esecuzione e lotta a quegli inutili vincoli che gli agricoltori
britannici hanno dimostrato di non volere più.
Partiamo dal latte,
dall’ortofrutta, dalla suinicoltura e dall’avicoltura. Si rilanci l’educazione
alimentare attraverso programmi di istruzione mirati, con campagne informative,
con messaggi chiari.
L’Unione europea
non può continuare ad escludere produzioni sempre più strategiche (vuoi per
questioni di crisi economica, di nuovi consumi, di nuove culture) come la
suinicoltura e l’avicoltura. Non possiamo pensare che la crisi si risolva da
sola.
Anche nel comparto
lattiero caseario, non si ragioni solo per Stati membri, ma si prendano in
esame le diverse realtà, le vocazioni produttive, i livelli di autosufficienza
e sovranità alimentare. Di conseguenza, si chiedano sforzi mirati – e condivisi
a livello comunitario – a quei territori che producono maggiormente, ben oltre
i loro fabbisogni interni.
Il segnale della
Brexit è stato inequivocabile. È la campana che suona per tutti noi. Non
dobbiamo attendere ulteriori chiamate per capire che l’agricoltura in Europa
deve trovare un nuovo slancio, per competere e confrontarsi su scala mondiale,
con le proprie peculiarità.
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