Sono 500 i milioni di euro previsti dal
secondo pacchetto di misure a tutela del settore lattiero caseario presentato
dall'Unione europea
Consigli non richiesti del Pacchetto latte 2.
Sebbene i mercati europei, per l'andamento stagionale, possano fiduciosamente
dirsi proiettati verso una timida ripresa, la crisi del comparto lattiero
caseario impone di non abbassare la guardia.
Lo sa bene l'Unione europea, che finalmente si
è decisa a presentare un secondo pacchetto di misure a tutela del settore: 500
milioni di euro, che se si vanno a sommare alla stessa cifra messa in moto
all'inizio di settembre 2015, è un bel gruzzolo, almeno in linea teorica.
Peccato che, a nostro sommesso avviso, il
provvedimento licenziato da Bruxelles non possa brillare per tempestività. Sono
oltre due anni che l'asticella dei prezzi è rivolta verso il basso, con
picchiate che ricordano i voli suicidi dei kamikaze giapponesi durante la
Seconda guerra mondiale.
Basteranno altri 500 milioni di euro? E'
legittimo dubitare, se non altro per il fatto che la prima tranche, arrivata
quasi fosse un'elemosina europea, dopo numerosi appelli e con il commissario
Hogan a negare che il comparto fosse in grave difficoltà, non ha affatto
ottenuto i risultati sperati.
Forse potrebbe avere ragione Ettore Prandini,
plenipotenziario della zootecnia di Coldiretti, a dire che l'Unione europea
nulla ha imparato dalla batosta della Brexit.
La gestione dell'Ue-28 (guai ad affermare che
il Regno Unito è già fuori, e lo dimostrano i 30 milioni che porta a casa con
le misure approvate due giorni fa) è ancora eccessivamente sbilanciata al
Centro-Nord. Il baricentro è là e ad avvantaggiarsi, almeno sulla carta, ancora
una volta è la Germania.
Lo dicono i numeri. La fonte è Clal e i dati
si riferiscono al 2013; un aggiornamento imporrebbe di ridurre di circa il
6-10% le cifre.
L'Italia porta a casa da questa serie di
misure 20,9 milioni di euro, da suddividere fra 39.600 allevamenti; la Francia
49,9 milioni, da distribuire fra 92.540 stalle.
La Germania è quella che, a prima vista, ne
esce meglio: 57,9 milioni di euro, da spartire fra 78.820 allevamenti.
Certo, poi con questa nazionalizzazione, che a
nostro parere toglie uniformità al provvedimento, almeno nelle sue linee guida,
non certo nella sacrosanta decisione di sostenere i propri allevatori nel modo
migliori, ognuno farà come gli va, per parafrasare Lucio Dalla.
Ma il primo impatto sembra confermare che
Berlino porta a casa una vittoria. Inoltre, i costi di produzione italiani sono
di certo superiori a quelli francesi o tedeschi.
Se l'Italia ha combinato poco o nulla con una
prima tranche di 25 milioni di euro, scegliendo di distribuire 1 centesimo 1 per
litro di latte, e con tempi di liquidazione dilatati quanto basta per
esasperare le sofferenze degli allevatori, con questa seconda ripartizione si
dovranno davvero fare le nozze coi fichi secchi.
Sarà prioritario individuare linee
programmatiche nette, onde evitare di perdersi in mille rivoli, che di fatto si
rivelano inutili. Il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, ha
annunciato che l'orientamento sarà rivolto a sostenere regimi di qualità,
incentivare gli allevamenti al pascolo, introdurre misure di supporto al
credito o favorire aggregazione e cooperazione tra allevatori, oltre alla
distribuzione degli alimenti agli indigenti.
In linea teorica è tutto condivisibile, ma i
timori, legittimi, che ci sorgono è che per fare tutto questo servano ben più
di 21 milioni di euro. Bisognerà necessariamente scegliere.
Preso atto che finora di Ocm latte si è solo
parlato, senza prenderla nella benché minima considerazione, è auspicabile che
l'Italia per una buona volta si faccia parte diligente fra Commissione,
Consiglio e Parlamento europeo per verificare la disponibilità ad attuare
provvedimenti idonei a supportare nuovi canali commerciali.
Non credo vi saranno titubanze a sostenere una
politica di aiuto all'export da parte di stati come l'Olanda, la Germania o
l'Irlanda, quest'ultima alle prese più di altri con le ripercussioni del post
referendum britannico, che ha svalutato la sterlina e ridotto i margini di
guadagno per Dublino. Ma un conto è che l'iniziativa parta dall'Italia,
un'altra è aderire ai piani altrui.
Il rischio che si correrebbe è quello di dover
votare e poi spacciare come una vittoria una Ocm latte mirata a sostenere
l'export di polveri, appannaggio del Centro-Nord Europa, e non magari un piano
in grado di premiare i prodotti caseari, con magari attenzione adeguata alle
Dop.
Anche perché prima o poi dovremo fare i conti
con un rinvio sine die del Ttipe, dunque, con nessuna tutela delle
denominazioni d'origine negli Stati Uniti.
A proposito di Usa, guardiamo sempre
all'America con ammirazione, ma perché non copiare e adattare alle esigenze
comunitarie i piani di promozione di prodotti lattiero caseari (in questo caso
allora sì comprendendo anche le polveri) verso i Paesi in via di sviluppo?
Potrebbe essere una valvola di sfogo in grado di decomprimere le pressioni di
mercato.
Il tema delle polveri è delicato e potrebbe in
futuro portare ad un accumulo di problemi. L'India, primo Paese produttore di
latte al mondo, sta accelerando la produzione interna e non è escluso che fra
qualche tempo si ritrovi a dover collocare sul mercato i propri stock.
Non è necessario che si tratti di quantità
ingenti. Basterebbe che il continente indiano, storicamente indipendente
rispetto ai flussi internazionali di prodotti lattiero caseari, si affacciasse
fra i player a spostare l'ago della bilancia.
Il Mipaaf non perda l'occasione per
valorizzare le produzioni di montagna e difenderle dallo spettro della
chiusura. Produrre in montagna è più difficile, dispendioso e faticoso rispetto
alle grandi stalle della Pianura padana.
Difendere gli allevamenti d'altura significa
anche garantire un futuro alle grandi Dop nazionali.
Se prendiamo le tre produzioni Dop più
significative a livello nazionale, scopriamo (ancora una volta è Clal a fornire
il dato) che il 23%, il 36% e il 20% degli allevamenti rispettivamente di Grana
Padano, Parmigiano Reggiano e Asiago si colloca geograficamente in montagna.
Un appunto, perché forse si è persa
un'occasione di chiedere una riduzione volontaria marcata fra i Paesi che
producono oltre il loro fabbisogno interno. Avrebbero dovuto essere loro i
primi a recedere dalle produzioni, non certo il Sud Europa, che si ritrova a
importare dal Centro-Nord fiumi di latte.
In tutto ciò, l'Ue dimentica la suinicoltura.
Ma non è la prima volta e non capiamo perché i maiali, che per un padano come
il sottoscritto sono parte integrante della propria cultura e della dieta
alimentare, stiano così antipatici agli euroburocrati.
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