
A questo tema Italia Ortofrutta Unione Nazionale ha dedicato
la sua recente assemblea con felice intuizione. Sono emersi dati finalmente
nuovi – anche grazie all’analisi di Nomisma – sia nella relazione del direttore
Vincenzo Falconi sia nel dibattito che è seguito tra addetti ai lavori
(Coldiretti, Confagricoltura, e Conad, unica sigla della Grande distribuzione
presente) e la sottosegretaria Alessandra Pesce. Quest’ultima, che pure ha dimostrato grande attivismo nel
suo ruolo (era presente a Berlino, ma è mancata a Rimini al Macfrut), ha
affrontato il tema costo del lavoro solo sotto l’aspetto della lotta al
caporalato sorvolando sul tema più ampio della perdita di competitività delle
imprese italiane, quella perdita che si è tradotta nel 2018 in 400 mila tonnellate di frutta perse sul
fronte export e nell’import che ha superato (di poco) l’export (e il 2019 non è
partito bene).
Si parla di caporalato, e giustamente, perché è una pratica
infame che va combattuta in un Paese civile. Però l’ipocrisia dominante evita
di dire che dietro i caporali ci sono le aziende agricole, e dietro le aziende
agricole ci sono le catene del retail che strozzano le aziende con prezzi
umilianti, pratiche sleali come le aste a doppio ribasso, ecc. Il presidente di
Italia Ortofrutta Gennaro Velardo ha fatto la sintesi: “Un prodotto buono,
etico, non può costare poco. E’ necessario far aumentare la percezione che
produrre in un certo modo e ad un certo livello come facciamo in Italia ha un
costo”. Ma questo costo evidentemente nessuno è disposto a pagarlo, e quindi si
scarica sull’anello più debole della filiera – la produzione – che già si deve
far carico di tutti i costi legati a qualità, sostenibilità, certificazione,
tracciabilità ecc.
A chi vorrebbe tenere l’ortofrutta relegata nell’ambito
delle commodities indistinte (nessuno lo dirà mai, ma molti lavorano proprio
per questo) il settore sta reagendo elevando i suoi standard in termini di
servizio al cliente, di prodotti innovativi, di sostenibilità a 360 gradi, di
certificazioni di ogni tipo, di corsa al biologico mentre l’agricoltura
integrata è già quasi uno standard. Sento anche parlare di frutta gourmet,
anche se mi sembra che questa sia una vera fuga in avanti per un comparto che a
malapena riesce a coprire i costi di produzione (poi, scusate, prima
bisognerebbe far trovare la frutta nei ristoranti italiani, dove rimane la
grande desaparecida). Si sta aprendo una campagna estiva piena di incognite che
rischia di trasformarsi nell’ennesima guerra tra poveri che si sfidano sul
mercato per pochi centesimi…
Orami il tempo è scaduto. Da anni stiamo girando attorno al
nocciolo delle questione: come ridare valore al prodotto in tempi di
competizione globale. Escludendo che lo si possa fare per decreto governativo,
bisogna stare sul mercato. E qui servono organizzazione e programmazione, due
qualità in cui gli spagnoli eccellono (col supporto delle ‘loro’ istituzioni).
Ma organizzazione e programmazione richiedono una forte aggregazione: anche il
60% non basta, se gli altri hanno l’80 per cento. Aggregazioni sulla carta
forti, ma non ‘abbastanza grandi’, come dimostra la vicenda di Opera, rischiano
di non funzionare. Poi bisognerà anche pensare a misure serie per rilanciare i
consumi interni perché non si può campare solo di export.
Il caporalato è un tema importante, ma non è ‘il tema’. Il
costo del lavoro va affrontato con misure realistiche magari con un contratto
ad hoc per gli stagionali, con decreti flussi che non arrivino in ritardo,
riformando i voucher oggi inapplicabili. Serve realismo, buon senso, una dose
massiccia di riformismo, affrontare il tema di fondo: la perdita di
competitività del sistema ortofrutta Italia. Se la politica “parla d’altro” spetta
alle rappresentanze del settore (e la sede deve essere il Tavolo nazionale)
indicare le priorità. Altrimenti continueremo a fare convegni, a lanciare
allarmi, bla, bla bla…
Fonte: Corriere Ortofrutticolo
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