
Ma cosa significano queste parole? Eco viene da oikos, che
vuol dire casa, abitazione (anche patria), lo sappiamo tutti ma quando e quanto
ci si ferma a pensare che l’ecologia parla di casa nostra? E che l’ambiente,
etimologicamente, è tutto ciò che ci circonda? Anche ciò che non vediamo non
percepiamo. Evidentemente non ci riflettiamo abbastanza. Siamo presi dal
sistema. Ed il sistema cos’è? Dal greco sunistemi: raccogliere, mettere
insieme, quindi un “eco” che tiene insieme elementi bio e non bio. Nella
frenesia della corsa che domina la nostra vita, le nostre giornate, le nostre
ore su questa terra, abbiamo perso il senso delle parole che usiamo, che, già
di per sé, ci aiuterebbe a vivere in modo più consapevole.
Oggi, protagonista delle cronache e della politica (da
polis) è l’economia, dal greco: eco=casa, cioè la casa in cui abitiamo,
l’insediamento in cui viviamo, il pianeta che ci ospita + nomia da nomos, nomoi
= le leggi, le norme che regolano la casa, a partire dalla nostra casa, anche
la casa che ospita tutti noi: il mondo, il pianeta terra. Eco-nomia ed
eco-logia hanno una radice comune, eppure sembra impossibile perché economia ed
ecologia sono continuamente in antitesi. Nel governare la propria dimora
(economia) dovremmo farlo anche attraverso regole che rispettino la dimora
stessa (ecologia) e gli ecosistemi che la compongono. Quando è avvenuta questa
separazione tra economia ed ecologia?
Quando l’uomo è passato dall’essere cacciatore all’essere
allevatore ed agricoltore, ha capito la necessità di aggregarsi ed ha
individuato delle regole di convivenza: nomoi =norme. In origine i nomoi erano
i pascoli il cui uso e rotazione erano regolamentati per non litigare ma anche
per mantenere la loro possibilità d’uso, la loro fertilità per gli uomini che
ne avrebbero avuto bisogno in seguito, per le generazioni future. Questa logica
del preservare l’abitabilità dei luoghi e la fertilità dei terreni, attraverso
manutenzioni continue e rotazioni è perdurata nei secoli, fino alla meta del secolo
scorso. I contadini, i mezzadri si preoccupavano nel mantenimento della
fertilità dei terreni, della manutenzione delle fosse, attraverso un rapporto
anche di rispetto sacrale con la natura, madre e matrigna, ma no lo facevano
perché erano tanto bravi, lo facevano per necessità, per lasciare il pane ai
loro figli ed ai loro nipoti. Erano lungimiranti.
L’uomo ha inciso sulla natura ma sempre considerandola
sacrale, da propiziarsi, madre e matrigna.
Per millenni l’uomo ha trasformato la natura, cercando degli equilibri
con essa, a volte vincendo, a volte essendone vinti, ma sempre in allerta ed in
perpetuo dialogo: basta un breve lasso di abbandono e la natura riprende il
sopravvento. L’economia avveniva in questo perpetuo dialogo con la natura nella
grande casa (oikos), appartenete ad entrambi.
Alcuni decenni fa l’uomo ha pensato di non avere più bisogno
della natura, che la grande casa (oikos), cioè il pianeta, fosse sua e che
ormai aveva dominato e vinto la natura. Abbiamo fatto come quei casi che si
vedono alla televisione, in cui ci sono persone che riempiono la casa di
rifiuti e noi pensiamo all’unisono che sono dei malati mentali, chi mai
vorrebbe vivere immerso nei rifiuti??? Tutti noi, in realtà ci stiamo
vivendo!!!
Parliamo poi del paesaggio, che è sempre stato il
sottoprodotto o derivato dell’agricoltura e delle attività umane, ad esclusione
dei giardini, che ovviamente sono il frutto di una progettualità estetica. Il
paesaggio a scala territoriale era il frutto di una economia, intesa come una
relazione tra uomo e natura in cui l’uomo modificava la natura affinché
rispondesse alle sue necessità, cercando degli equilibri e facendo memoria
delle risposte che la natura dava nei confronti di alcune modifiche. Poi la
cultura popolare è diventata obsoleta ed è stata gettata alle ortiche insieme
alla madia della cucina, che oggi si va a ricomprare dall’antiquario. Tanto, si
pensava, e purtroppo si continua a pensare: c’è la tecnica che permette di
superare qualunque ostacolo di tipo naturale. E via con le colate di cemento.
Il risultato, però, lo vediamo, lo percepiamo: è paesaggio. E siccome quello
che vediamo, che percepiamo, non è più bellissimo.
E dopo aver fatto tutto questo ci poniamo il problema del
paesaggio e vogliamo progettare, restaurare, ricreando (o inventando) paesaggi
storici. Praticamente trattiamo tutto il territorio come un grande giardino e,
se da una da una parte lo è, come dice Olmstead, perché necessita cure e
manutenzioni, da un’altra non lo è e non deve esserlo. Il paesaggio non è
neppure un quadro, anche se lo gestiamo come se lo fosse. Siamo tornati
indietro, al tempo in cui fu necessario scrivere nella Legge 1497/39 “bellezze
naturali come quadri…” perché queste fossero sottoposte a tutela. La
Convenzione europea del paesaggio del 2000 (anche se un po’ paesaggiocentrica)
aveva dato una ventata di novità, che nel nostro paese è andata persa. Il
paesaggio è visto come un quadro pastorale, come il modello sapientemente
proposto dalla pubblicità. Troppo spesso finto. Il paesaggio viene considerato
come una mera rappresentazione dello spazio non come processo culturale e come
frutto reale della interazione tra uomo e natura.
Il conflitto avviene nella differenza tra temporalità dei
luoghi e temporalità degli abitanti; nell’antichità si attribuiva un pascolo ad
un abitante per soddisfare i suoi bisogni ma il pascolo era da preservare per
l’eternità. I paesaggi si sono creati in seno alla matrice di madre natura. E’
difficile parlare di ecosistemi nei paesaggi contemporanei del nostro paese,
che sono, anche sulle montagne, frammentati, perché, ad esempio, le rotte
migratorie sono disturbate ed interrotte dalle attività umane. Le aree di
connessione ecologica sono troppo spesso delle linee colorate, ciò che conta è
la possibilità edificatoria ed i tempi sono quelli del mandato elettorale del
politico di turno (temporalità delle persone e non dei luoghi). Piace molto
l’idea di rinaturalizzare ma non si è disposti ad accettare il tempo che è
necessario per farlo, si deve creare ed ottenere subito un risultato. Siamo in
un paese non lungimirante, eppure si sa che il legno migliore viene da alberi
che sono lenti a crescere ma non conta.
Dobbiamo ricomporre il conflitto tra temporalità dei luoghi
e temporalità degli abitanti, non per un lontano futuro ma per il nostro oggi.
Autore: Elisabetta
Norci
Fonte: Accademia dei Georgofili
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