
La legge italiana contro il caporalato, sottolinea lo studio,
arriva appena cinque anni dopo un'iniziativa analoga, segnale della
"necessità di disciplina di quello che è un fenomeno molto diffuso nel
nostro Paese". D'altro canto in Germania e Austria, la percentuale è al di
sotto del 10%. Il fenomeno è difficile da misurare, a causa dei diversi
parametri che sono adottati nei diversi paesi, a partire dalle differenze nella
definizione giuridica di azienda agricola. Una disomogeneità normativa che
coincide con un cono d'ombra nella legislazione europea, per diventare anche
barriera tecnica al commercio e fattore di distorsione della concorrenza nel
mercato interno. Le differenze tra le realtà nazionali si spiegano con la
diversità strutturale dei sistemi agricoli, la presenza più o meno
significativa di produzioni stagionali e quella più o meno forte
dell'immigrazione, il numero di aziende agricole e la loro capacità di innovare
dal punto di vista dei processi tecnologici, capaci di incidere sulla quantità
e la qualità della manodopera necessaria a svolgere le lavorazioni in azienda.
Ma, anche, con diversi modi di considerare dal punto di vista giuridico, e
misurare da quello statistico, definizioni essenziali a tracciare il quadro
generale del problema come "lavoratore" o "azienda"
agricola. Non è semplice individuare le vittime di lavoro informale, sommerso o
gravemente sfruttato, e chi prova a occuparsi del fenomeno a livello europeo si
trova davanti a una "zona grigia", non solo in riferimento alla
presenza di comportamenti illegali, ma anche per la difficoltà di reperire dati
omogenei. Le buone prassi tuttavia esistono, come in Italia con la Campagna
"Buoni e giusti" della Coop e i progetti della Caritas, in Francia
grazie alle regole sulla raccolta dell'uva o in Spagna nel settore
dell'ortofrutta nella regione dell'Almeria, dove l'agricoltura funziona da
strumento di integrazione di immigrati e non di emarginazione.
Fonte:Ansa.it
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