Il concetto di lavorazione principale rimane ancora
fortemente legato all’aratura, per ragioni dovute più alla “cultura”che alla
coltura. Non è un semplice gioco di parole: in campagna la tradizione pesa
ancora sulle scelte agronomiche, e non solo a causa della difficoltà ad
accogliere i cambiamenti.
La nostra agricoltura è figlia della rivoluzione verde, quel
processo che ha fatto sì che gli italiani possano oggi destinare circa il 15%
delle proprie risorse economiche all’alimentazione, meno di un terzo di quanto
si spendeva 50 anni fa.
Per anni, di pari passo con la diffusione della
meccanizzazione, la tecnica agronomica ha spinto sull’incremento della
profondità di lavoro, quale strumento per incrementare le rese e, dobbiamo
ammetterlo, per vendere più trattori. Non era però un messaggio illusorio: in
effetti le rese aumentarono in misura incredibile (da 2 a 4 volte!), ma non
solo per questa ragione. Sul processo avevano infatti inciso inmodo
determinante il miglioramento genetico, lo sviluppo della difesa fitosanitaria
e l’impiego di fertilizzanti di sintesi, oltre a metodi di semina e sistemi di
raccolta decisamente più efficaci.
Il primo, duro colpo alla teoria delle lavorazioni profonde
venne dalla crisi energetica degli anni Settanta, quando il costo del gasolio
subì un drammatico incremento: nonostante l’agricoltura europea rimanesse
altamente redditizia – per effetto della politica comunitaria e del conseguente
sostegno ai prezzi – si cominciò per la prima volta a pensare alle possibili
alternative. Nei decenni successivi le cose, in senso economico, sono
gradualmente peggiorate, fino all’attuale congiuntura che vede periodiche
cadute dei prezzi e la conseguente messa in discussione dei modelli produttivi
ritenuti validi nei periodi di abbondanza.
Nei momenti peggiori il tema delle lavorazioni diventa
particolarmente caldo e trova un numero sempre maggiore di detrattori, convinti
che si debbano abbandonare del tutto in favore della semina diretta e
dell’adozione del regime sodivo puro, unico strumento per salvare la
redditività dell’agricoltura.
I principali obiettivi delle lavorazioni
Il lettore avrà notato che nella nostra analisi, per quanto
rapida e superficiale, non abbiamo parlato di agronomia, ma ci siamo limitati
soltanto a citare considerazioni legate soprattutto al risparmio energetico e
alla riduzione dei costi diretti. Ma i processi biologici, che stanno alla base
dell’agricoltura, non seguono le leggi dell’economia: e se questa, per unanime
constatazione degli esperti (specie dopo le ultime crisi), ha confermato di non
essere una scienza esatta, figuriamoci quanto può esserlo un’attività soggetta
alle mutevoli condizioni climatiche. In realtà, nessuna tecnica colturale può
vantare un’efficacia assoluta, nel senso che non esistono ricette applicabili
in modo indiscriminato a tutte le condizioni pedoclimatiche e a tutte le
colture. Tralasciando la semina diretta, che richiede di ripensare l’intero
piano colturale e lo stesso modello organizzativo aziendale, è opportuno
esaminare la funzione delle lavorazioni al terreno e gli effetti che queste
determinano sulla fertilità e sulla sua capacità produttiva.
Le varie “scuole” agronomiche europee, tuttora sostenute
dalla maggioranza della comunità scientifica, concordano sui principali
obiettivi delle lavorazioni:
– miglioramento dell’areazione del terreno, dovuta alla
presenza di vuoti, che favorisce l’ossidazione della sostanza organica e lo
sviluppo dei microrganismi;
– miglioramento della struttura, attuato in modo da favorire
i processi di aggregazione delle particelle terrose;
– miglioramento della percolazione delle acque, per evitarne
lo scorrimento superficiale;
– interramento dei residui colturali per favorirne
l’umificazione ed evitare le perdite dovute a una mineralizzazione troppo
rapida;
– interramento dei fertilizzanti nello strato interessato
dall’attività dell’apparato radicale;
– riduzione dell’attività della vegetazione spontanea
infestante; riduzione dell’attività dei parassiti vegetali e animali.
Aratura oltre i 50 cm solo in casi limite
Come non esiste una lavorazione in grado di realizzare tutti
questi obiettivi senza produrre effetti collaterali più o meno fastidiosi, così
non è detto che essi siano ugualmente efficaci nei confronti dell’incremento
delle rese unitarie o del miglioramento della qualità dei prodotti. I diversi
punti di vista degli agronomi, e le varie teorie che coesistono nel panorama
scientifico, riguardano proprio questi aspetti: ogni coltura ha le sue
esigenze, in relazione al luogo in cui si sviluppa e ai fattori climatici e
pedologici che lo contraddistinguono. In linea generale, tuttavia, anche i
sostenitori più entusiasti delle lavorazioni profonde sono ormai concordi
nell’affermare che l’aratura oltre i 50 cm di profondità non abbia molto senso,
se non come operazione colturale del tutto straordinaria, e solo nei terreni
fortemente tenaci o danneggiati da eccessivi costipamenti. D’altronde la
maggior parte dell’attuale produzione di aratri non prevede di norma il
superamento di tale limite, che può essere raggiunto soltanto con attrezzature
specialio di vecchia costruzione, magari azionate da cingolati di tipo
convenzionale. In queste situazioni, più che di aratura, intesa come operazione
colturale ordinaria, si può parlare di scasso o comunque di interventi di tipo
straordinario, aventi lo scopo principale di ripristinare un terreno
danneggiato da fattori climatici avversi o da pratiche colturali errate. Di
conseguenza il concetto di lavorazione profonda oggi non supera mai i valori
indicati, se non con discissori ad ancore diritte o drenatori, impiegati
soprattutto per rompere la suola di aratura e facilitare la percolazione
profonda delle acque, talvolta muniti di ogiva posteriore per creare una sorta
di dreno, la cui durata è direttamente proporzionale alla tenacità del terreno.
L’aratura tende sempre di più a essere praticata a due
profondità caratteristiche: dai 40 ai 45 cm, e intorno ai 30, con una
diminuzione della profondità di lavoro, rispetto al recente passato, di un buon
20%. È tuttavia singolare come la pratica dell’aratura, ancorché svolta a
modesta profondità, continui a venire puntualmente applicata anche nelle aree
caratterizzate da terreni decisamente sciolti, nei quali si rivela
sostanzialmente inutile. I residui colturali possono essere facilmente
interrati anche con una semplice estirpatura, a condizione che le ancore siano
dotate di espansioni laterali in grado di determinare un certo rimescolamento
del terreno e questo non sia troppo umido. In condizioni del genere il
rivoltamento degli strati non è necessario, in quanto la struttura del terreno
è, e rimane, piuttosto uniforme ai vari livelli: l’umificazione della sostanza
organica può avvenire regolarmente lungo tutto il profilo del suolo.
Guardando alla Tab. 1, possiamo accorgerci a colpo d’occhio
che l’aratura superficiale realizza di norma le migliori condizioni
agronomiche, anche se la conta delle caselle dei pregi e dei difetti rischia di
trarre in inganno: vi sono alcune colture – dette, per l’appunto, da rinnovo –
dove un’aratura a 30 cmn on si può considerare sufficiente (come il pomodoro,
la patata o la barbabietola), così come vi sono terreni nei quali la creazione
del famoso “serbatoio d’acqua” è tuttora necessaria. Con l’esclusione di queste
e di poche altre situazioni particolari, però, le considerazioni espresse in
tabella rispecchiano effettivamente la realtà, a patto che il confronto venga
fatto per lavorazioni omogenee: estirpatura a 25 cm con discissura a profondità
doppia, araturaa 30 cm con aratura profonda. Confrontare un dissodamento a
mezzo metro con un’aratura leggera non ha molto senso, perché si tratta di due
interventi effettivamente molto diversi e non solo nella profondità: il primo
non interrerà mai i residui colturali con la stessa efficienza della seconda,
che tuttavia avrà effetti sulla regimazione idrica piuttosto modesti, specie
nei terreni tenaci o costipati.
Stress meccanici diversi per le trattrici
Fatte queste premesse, l’esame della tabella può aiutare a
riassumere pregi e difetti delle rispettive soluzioni, tenendo conto in
particolare degli effetti sui costi di preparazione del letto di semina: la
lavorazione leggera lascia una superficie più uniforme, sulla quale si può
intervenire con maggiore facilità e con costi decisamente inferiori.
Tralasciando l’aspetto economico delle lavorazioni leggere,
che ognuno conosce, è opportuno fare qualche breve riflessione sulle diverse
condizioni di lavoro a cui si sottopone la trattrice, al diminuire della
profondità di lavoro e al corrispondente aumento del numero di corpi operatori.
Senza ricorrere a complessi strumenti matematici, dobbiamo immaginare che un
trattore in aratura disegna, schematicamente, un triangolo rettangolo. Il lato
verticale (più corto) è dato dalla distanza fra il centro dell’asse posteriore
e un punto posto sotto di esso, a circa 2/3 della profondità di lavoro; il lato
orizzontale collega questo punto con il baricentro dell’aratro in lavoro (posto
circa a metà della lunghezza dello stesso ed alla profondità di cui si è
detto); l’ipotenusa chiude il triangolo collegando quest’ultimo punto con
l’asse posteriore del trattore.
Ora, maggiore è la profondità di lavoro, meno sono i corpi
dell’aratro; se vogliamo limitarci a un’aratura leggera, ne avremo invece di
più, con un aratro molto più lungo e un baricentro più arretrato e
superficiale: avremo allora un triangolo rettangolo ancora più schiacciato e
allungato. Bene, questi due triangoli rappresentano graficamente il diagramma
delle forze a cui è sottoposto l’insieme, con il lato verticale che ci dà la misura
delle sollecitazioni a carico del trattore, e soprattutto degli organi di
trasmissione e propulsione (cingoli o pneumatici). Se andiamo a confrontare
l’angolo di apertura dei due triangoli, ci rendiamo conto che lo stress
meccanico che subisce una macchina impegnata in una lavorazione profonda è
molto più severo rispetto a una trattrice che esegue un lavoro superficiale,
anche solo di pochi centimetri, a parità di sezione lavorata.
Proseguendo il ragionamento, è evidente che le massime
sollecitazioni si avranno impiegando attrezzi molto corti, come il drenatore a
talpa o il ripuntatore ad ancore diritte, che operano a grande profondità:
questo spiega i problemi di tenuta degli organi di trasmissione, verificatisi
specialmente nei trattori a cingoli in gomma della prima generazione, che non
potevano contare sulla deformazione degli pneumatici posteriori.
da Agricoltura24
Nessun commento:
Posta un commento