Ecco allora che entra in gioco il concetto di variabilità,
che è il fenomeno sul quale oggi finalmente l’agricoltore può lavorare per
tentare di correggerla a suo favore. Il chhe significa:
cercare di migliorare, ove è possibile, la produzione nelle
zone meno fertili; e se non si riesce, conviene diminuire gli investimenti in
mezzi tecnici;
ottenere ancora più produzione nelle zone più fertili,
aumentando gradatamente gli input.
Tutto parte dalle mappe di produzione
Ma da dove si comincia? Dalle mappe di produzione,
realizzate dalla mietitrebbia in fase di raccolta del prodotto dal campo, che
certifica su una mappa colorata le produzioni ottenute zona per zona, facendo
così identificare all’agricoltore con esattezza le aree dove si è prodotto di
più e dove si è prodotto di meno.
Finalmente l’agricoltore, avendo a disposizione un dato
produttivo sitospecifico, non ragiona più solo in termini di media di campo
come ha fatto sino a oggi, bensì come produzione relativa alle diverse aree
omogenee dei suoi appezzamenti. Da qui potrà incamminarsi verso le cosiddette
“dosi variabili” di semente, concime e agrofarmaci.
Grazie alle mappe di prescrizione lette da seminatrice,
spandiconcime e barra (ma solo se Isobus compatibili), l’agricoltore potrà
dunque variare le dosi distribuite a seconda delle aree dell’appezzamento
dotate di maggiore o minore fertilità.
Tutto ciò che è innovazione fatica a entrare nella mentalità
degli agricoltori, ma per fortuna cresce la percentuale di imprenditori che
sono convinti che l’innovazione tecnologica è l’unico strumento per
riguadagnare in competitività.
Fonte: Il nuovo agricoltore
Autore: Roberto Bartolini
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