Ancora una volta, il settore agricolo, è stato alla ribalta
mediatica. E, con un po’ di sano populismo, si è giunti a una (forse
affrettata) conclusione: per favorire il ricambio generazione in agricoltura e,
al contempo, impedire lo spopolamento delle zone rurali, occorre abbassare (di
molto, forse di troppo?) i prezzi dei terreni e dei fabbricati rurali. E così,
al solo costo di un caffè, oggi è possibile acquistare terreni agricoli, case
coloniali, masserie, aziende agricole in diverse regioni italiane. Un’operazione
che, così come è stata posta dai media, sarebbe al contempo semplicissima ed
efficace: con un semplice contratto, e con poche monete sul tavolo, si
andrebbero a risolvere due problemi di grossa portata: il problema della
senilizzazione del settore agricolo e il problema della disoccupazione
giovanile. Non solo: si andrebbero a ripopolare quei luoghi che, negli anni,
hanno visto il progressivo abbandono e si andrebbe a riqualificare un immenso
patrimonio immobiliare. Le ricadute sono facilmente immaginabili: ritorno del
turismo di qualità, miglioramento della tutela paesaggistico-ambientale. Tutto
giusto, giustissimo. Oltretutto, tale operazione – di cui, in realtà si parla
da anni, ma che solo qualche settimana fa è tornata sotto i riflettori –
avrebbe già dato i primi frutti: impegnatisi a ristrutturare entro tre anni
dall’accordo contrattuale, a quanto dicono i media, sarebbero già in molti –
soprattutto stranieri – ad aver optato per il ritorno alla terra. E tutti
sarebbero particolarmente entusiasti della decisione presa: vivere in campagna
significa (solo) aria buona, criminalità zero, stress addio. Ma, al di là delle
personali considerazioni, le domande che sorgono spontanee sono più d’una: è
corretto, da un punto di vista strettamente tecnico-estimativo, svendere beni
che, nel proprio pedigree, conservano un glorioso passato? Che effetti hanno
queste operazioni sul valore generale della terra e l’acquisto di terreni
agricoli? Non esiste il rischio che facciano da volano al ribasso, sminuendo,
deprezzando, svalutando anche le terre che non sono state abbandonate, ma che
hanno solo la sfortuna di avere caratteristiche simili, o di essere collocate
nelle vicinanze?
La Banca delle terre agricole
Per delineare un quadro completo, va anche detto che, in
effetti, l’accesso al bene terra, soprattutto per i giovani italiani che non
hanno una tradizione familiare in ambito agricolo, è quanto meno difficoltoso.
L’Italia è infatti caratterizzata da una scarsa, se non addirittura scarsissima
mobilità fondiaria, soprattutto in quelle zone caratterizzate da DOP, DOCG,
produzioni ad alto valore aggiunto. Oltre all’acquisto di terreni agricoli,
anche gli affitti, in queste zone, sono proibitivi. È altrettanto vero, però,
che non è significativo/rappresentativo della situazione fare una media dei
prezzi ad ettaro: le stime di Agia, l’associazione dei giovani imprenditori
agricoli della , dice che in Italia un ettaro di terra costa – mediamente –
18mila euro, contro i 5500 della Francia e contro i 6500 della Germania. Ma, lo
sanno bene gli addetti ai lavori, ci sono zone in cui un ettaro di terreno può
valere anche 1milione di Euro, dunque, l’indicazione media, ha forti limiti. In
ogni caso, qualche tempo fa è nata la Banca delle terre agricole, che mette a
disposizione soprattutto dei giovani il patrimonio pubblico. L’auspicio degli
stakeholder è che la Banca possa contribuire a generare nuova occupazione
agricoltori under 40 in un comparto che, tra produzione e industria, vale il
15% del Pil. Ma dove si trovano queste terre? Hanno oggettive potenzialità
produttive? Quali costi comporta la loro remise en forme?
Acquisto di terreni agricoli: come si stima il valore della
terra?
La terra, insieme al capitale e al lavoro (dell’imprenditore
e dei suoi collaboratori) è un fattore della produzione. Ne consegue che, il
suo valore, è strettamente connesso con la sua capacità di generare reddito.
Ecco perché, tradizionalmente, la valutazione analitica del valore di un
terreno passa attraverso la capitalizzazione dei redditi prodotti. In pratica,
per eseguire il computo, alla produzione lorda vendibile (PLV), si sottraggono
le spese: ciò che resta è il beneficio fondiario che, appunto, viene
capitalizzato, il base al tasso di capitalizzazione della zona, del periodo,
del mercato. Va però detto che l’art.16 della Legge 865/1971 ha introdotto i
Valori Agricoli Medi, noti come VAM. Dopo una serie di vicissitudini normative
oggi, in ciascuna provincia, i valori agricoli medi sono determinati ogni anno,
entro il 31 gennaio, dalla Commissione Provinciale Espropri nell’ambito delle
singole regioni agrarie, con riferimento ai valori dei terreni considerati
liberi da vincoli di contratti agrari, secondo i tipi di coltura effettivamente
praticati, e rilevati nell’anno solare precedente. I valori, espressi in euro
per ettaro, vengono pubblicati sui Bollettini Ufficiali Regionali (BUR). Dunque
un riferimento normativo esiste: in assenza di un mercato dinamico e in assenza
di un bilancio aziendale specifico e dettagliato, il riferimento per stimare il
valore di un terreno dovrebbe essere il VAM. Che, sebbene sia spesso ritenuto
poco congruo e lontano dall’effettivo valore della terra, difficilmente si
avvicina al costo di un caffè. Meditiamo.
Fonte: A come Agricoltura
Autore: Laura Parlander
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