il Canto dei mietitori, conosciuto almeno quanto quello dei
minatori, merita qualche corollario esplicativo, sia storico che
memorialistico.
Chi sono questi mietitori “venuti di molto lontano, /scalzi,
cenciosi, con la canna in mano”? C’erano in effetti alcune aree della Sicilia,
tra le più povere e arretrate, che nei momenti cruciali della raccolta del
grano duro, prima dell’avvento della meccanizzazione, esportavano mietitori,
che migravano attraverso l'isola. Il "molto lontano", dunque, quasi
sempre interno alla Sicilia stessa, è tale per la lentezza degli spostamenti.
Nelle aree di più intensa produzione cerealicola, nel
brevissimo torno di tempo del raccolto, era in ogni caso difficile trovare
manodopera sufficiente nel mercato locale, anche perché erano molti i
braccianti-contadini che, giustamente, prima di mietere il grano altrui, si
mettevano all’opera nel proprio campicello. Ma se si considera l'intera
Sicilia, in ragione di diverse altitudini e microclimi, la raccolta del grano
durava anche un mese: si cominciava a metà giugno e si finiva a metà luglio e
oltre. Da qui la presenza numerosa in molte località, anche al mio paese, di
codesti mietitori migranti che si spostavano da un luogo all’altro portando
seco lo strumento di lavoro e un fagotto legato a una canna con le loro povere
cose. Niente, in genere, cappellini di cotone o pagliette; come copricapo i più
usavano fazzoletti non dissimili da quelli che si adoperava per raccogliere
moccio e sternuti.
Li chiamavamo, oltre che mititura, mudicani, perché da
Modica provenivano i più tra loro. Concludendo la loro giornata di lavoro
(ch’era cominciata alle cinque del mattino) intorno alle due del pomeriggio,
non pochi di loro si sdraiavano per terra in uno spazio ombreggiato non lontano
dalla piazza principale. Sostavano lì anche per addruvarisi a caporali o
piccoli proprietari, “affittarsi”, dal francese allouer, come s’addruvanu le
case o altri oggetti. Facevano un po’ d’impressione, con i vestiti cenciosi, le
barbe lunghe, i fazzoletti, le falci. Le mamme e le nonne per evitarci la
canicola nelle ore più calde ci raccomandavano di non uscire di casa perché in
giro c’erano li mudicani. I mietitori acquistavano dunque lo stesso valore di
spauracchio che avevano gli zingari ( zanni) o i gruppi di protestanti che
arrivavano da Riesi e Sommatino (vangilisti).
Il “canto dei mietitori” di Rapisardi ha toni, da una parte
di denuncia dall’altra di rivolta, che sembrano estranei ai veri “canti della
mietitura” documentati dal folclore, ove sembra prevalere l’elemento
religioso-rituale. Ma le cose sono forse un po’ più complicate.
Mi capitò da giovane di accompagnare come amico Peppino
Smiraglia nella raccolta dei canti di lavoro per la sua tesi di laurea. Non
posseggo la trascrizione, ma ho assistito ad una performance sui canti che
accompagnavano l’opra, il gruppo organizzato dei mietitori. Ricordo l’inizio,
Sia ludatu e ringraziatu ogni momentu lu santissimu e divinissimu Sagramentu,
la cui solennità era sottolineata dal Sagramentu ripetuto ben tre volte. Ricordo
lunghissime tiritere, anch’esse a sfondo religioso, in cui spiccavano due
espressioni, capu di spata e capu di bruera: mi spiegavano trattarsi dei
mietitori che ai due capi aprivano e chiudevano l’opra. Ma il cantare dei
mietitori non era tutto qui, comprendeva anche degli “assolo”, dei mottetti di
tutt’altro carattere.
Il canto dei mietitori
La falange noi siam dei mietitori
e falciamo le messi a lor signori.
Ben venga il Sol cocente, il Sol di giugno
che ci arde il sangue e ci annerisce il grugno
e ci arroventa la falce nel pugno,
quando falciam le messi a lor signori.
Noi siam venuti di molto lontano,
scalzi, cenciosi, con la canna in mano,
ammalati dall'aria del pantano,
per falciare le messi a lor signori.
I nostri figlioletti non han pane
e, chi sa?, forse moriran domane,
invidiando il pranzo al vostro cane...
E noi falciam le messi a lor signori.
Ebbro di sole, ognun di noi barcolla
acqua ed aceto, un tozzo e una cipolla
ci disseta, ci allena, ci satolla,
Falciam, falciam le messi a quei signori.
Il sol cuoce, il sudore ci bagna,
suona la cornamusa e ci accompagna,
finché cadiamo all'aperta campagna.
Falciam, falciam le messi a quei signori.
Allegri o mietitori, o mietitrici:
noi siamo, è vero, laceri e mendici,
ma quei signori son tanto felici!
Falciam, falciam le messi a quei signori.
Che volete? Noi siam povera plebe,
noi siamo nati a viver come zebre
ed a morir per ingrassar le glebe.
Falciam, falciam le messi a quei signori.
O benigni signori, o pingui eroi,
vengano un po' dove falciamo noi:
balleremo il trescon, la ridda e poi...
poi falcerem le teste a lor signori.
Autore: Mario Rapisardi
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