Pubblichiamo l’intervista di Antonio Pascale a Deborah
Piovan (da Il Post del 20/11/2017)
Da 27 anni e più svolgo il mio lavoro ispettivo al Mipaaf.
Mi occupo di calamità naturali in agricoltura. Spesso giro tutta l’Italia
agricola – sono circa 12 milioni di ettari – e incontro un sacco di agricoltori
e imprenditori. Sarà anche per quel senso di fatalismo che caratterizza il mio
lavoro – il motto è: siamo sotto al cielo – ma nell’agricoltura reale il
pessimismo serpeggia. Le stesse facce dei contadini esprimono disagio. Si nota
il contrasto tra la bellezza, o meglio la colorata fragranza di alcuni prodotti
agricoli sopraffini e la stanchezza di chi li produce. Molti imprenditori
agricoli sono anziani, stanchi, mani callose, rughe, l’artrite in agguato. Possiedono
poco e niente, hanno case con mobili di legno spessi, enormi, voluminosi, fuori
moda. E un parco macchine polveroso e vetusto. Sì, a volte è proprio il senso
di fragilità dell’intero sistema che ti colpisce: baracche e immigrati,
brandine sparse. Centinaia di lavoratori sotto pagati che in un attimo, come in
un’apparizione, entrano nei campi, si chinano sulle piante e così passano la
giornata, e l’attimo dopo, come in un miraggio, escono dal tuo raggio visivo,
si disperdono, si nascondono, e solo perché qualcuno ha fatto un fischio:
arriva la Finanza per un controllo. Se esaminiamo (dati Ismea alla mano) alcuni
comparti, quelli tradizionalmente associati al made in Italy possiamo
intravedere potenzialità e limiti. Questi ultimi sono sempre gli stessi, ma
affrontati, mai superati: a) la difficoltà a fare squadra, cioè associarci in
forme cooperativa: propendiamo per l’individualismo e siamo pochi inclini
all’associazionismo; b) l’età media degli agricoltori è alta, quindi poca
innovazione e minore flessibilità, c) frammentazione delle imprese agricole: le
imprese in massima parte non hanno una dimensione economica tale da garantire
un reddito sufficiente: alcune condotte part time, e insomma, nel complesso
fanno numero ma non produzione (quest’ultima viene infatti soddisfatta da poche
aziende medie/grandi). Tuttavia, e non solo sui media, il nostro paese agricolo
appare sorridente, in buona salute: un esteso mulino bianco, innevato dalla
farina e alimentato con chiare, fresche e dolci acque. Contadini vecchio
stampo, carattere forte e barba lunga (e ben curata) che accarezzano i propri
prodotti o si riposano sotto una quercia illuminati dalla luce rossa e violacea
del tramonto. Sembrano dire: questa è la bellezza della natura, e noi prendiamo
da lei quello che ci da, non spingiamo, non deformiamo e per questo siamo così,
felici, soddisfatti, sotto questa quercia, sotto questa luce. Per parlare di
agricoltura reale e dei suoi problemi nonché di alcune soluzioni, abbiamo
chiacchierato con Deborah Piovan, agricoltore, agronoma.
Ciao, presentati.
Sono un agricoltore. Mi sono laureata in Scienze Agrarie,
con tesi in Miglioramento Genetico, all’Università di Pisa e alla Scuola
Sant’Anna. Da allora gestisco con la mia famiglia la nostra azienda. Coltiviamo
mais, frumento, soia, noci, girasole, ecc. Da tanti anni sono anche un
dirigente di Confagricoltura. Mi occupo in particolare di questioni relative
all’innovazione biotecnologica in agricoltura. In pratica, sono una di quegli
imprenditori che chiede con forza alla politica che ci venga concesso di
accedere alle innovazioni del miglioramento genetico. Cerco anche di raccontare
alle persone che si occupano di altro che cos’è l’agricoltura e soprattutto
cosa non è.
Ok, quali sono, secondo te, i problemi dell’agricoltura
reale?
Primo: abbiamo bisogno di una politica agricola chiara e
definita per un periodo congruo, l’incertezza non giova agli investimenti.
Secondo: alle imprese agricole italiane viene impedito
l’accesso a una importante fetta di innovazione, quella legata alle
biotecnologie. Mi spiego meglio. Al momento sembra che questo Paese abbia
rinunciato a produrre derrate, dimenticando che sono alla base del famoso Made
in Italy. Pensiamo per esempio al mais: è il mangime che sta alla base della
filiera zootecnica che produce i nostri famosi prosciutti e formaggi, quelli
che ci hanno resi famosi in tutto il mondo. Ebbene, fino a pochi anni fa
eravamo autosufficienti per la produzione di mais; oggi importiamo quasi metà
del nostro fabbisogno.
Come mai?
Il nostro prodotto non è appetito dall’industria
mangimistica come quello importato, perché è meno sicuro. Infatti il mais
coltivato nel sud Europa, a causa di un insetto che si chiama piralide ma anche
per contingenze climatiche, è più facilmente ricco di tossine. In Spagna si
difendono seminando un mais che si protegge da solo dalla piralide, con grande
soddisfazione. A noi invece non è concesso, così per ottenere un prodotto sano
siamo costretti a difendere il mais con insetticidi. Si produce comunque di
meno e il prodotto è a rischio tossine. Ecco perché i mangimisti preferiscono
affidarsi a mais di importazione, ogm o meno.
Aspetta, mi fai capire meglio questo punto? Tu coltivi mais,
bene, quali sono le operazioni colturali che devi fare, quelle che sei costretta
a fare e quali potresti evitare con le biotecnologie?
Per prima cosa per garantire che al consumatore giunga un
prodotto sicuro dobbiamo difendere il mais con insetticidi. Per esempio: la
piralide, un lepidottero minatore, scava gallerie nella pannocchia aprendo così
la strada a vari funghi. I funghi producono tossine (che possono causare vari e
seri problemi) e quest’ultime passano intatte nei 4 stomaci dei bovini e
finiscano nel latte. Ora, con il mais ogm (bt) alcune pratiche agronomiche
rimangono uguali – per esempio devo comunque diserbare – ma perlomeno risparmio
il/i trattamento/i insetticida anti piralide. Che non è poco almeno sia in
termini di costi per l’agricoltore. Un trattamento anti piralide costa circa 60
euro all’ettaro. Parliamo di una superficie di circa 700.000 ettari che viene
trattata con più di 80.000 litri di insetticida, per un giro d’affari per le
multinazionali della chimica di circa 40 milioni di Euro. Ma c’è anche un
vantaggio anche in termini ambientali. Secondo voi dove c’è maggiore
biodiversità: in un campo di mais tradizionale appena trattato con
l’insetticida o in uno di mais bt che ricordiamo si protegge da solo contro la
piralide? Nel primo ho ucciso tutti gli insetti. Il secondo è un brulicare di
vita, manca solo l’insetto dannoso per la coltura».
Oltre alle suddette difficoltà vedi altri problemi
nell’agricoltura reale?
Sì, l’agricoltura italiana ha un grosso problema di
comunicazione con il pubblico, che si è fatto un’idea distorta di cosa essa
sia. Abbiamo l’agricoltura più sicura al mondo e contemporaneamente i
consumatori più spaventati al mondo: c’è qualcosa che non va.
Perché vince l’agricoltura non reale?
Credo che sia anche colpa di noi agricoltori: siamo rimasti
chiusi nelle nostre aziende a lavorare, occupandoci di garantire un prodotto
ottimo, seguendo le tante norme di sicurezza ambientale e tutela del
consumatore che ci sono state date. Anche i prodotti chimici a disposizione per
proteggere le colture da insetti, piante infestanti e malattie fungine sono
sempre di meno: i processi di autorizzazione e di revisione che si è data l’UE
sono severissimi. Ecco perché dico che abbiamo l’agricoltura e il cibo più
sicuri al mondo. E tuttavia abbiamo lasciato che la comunicazione venisse fatta
da qualcun altro. Così i programmi televisivi si sono riempiti di immagini
bucoliche e accattivanti, che raccontavano un’agricoltura che non esiste più da
tanto tempo. L’agricoltura e il cibo sono argomenti che attirano, si sposano
perfettamente a un dilagante salutismo malato, a una strana voglia di trovare
complotti ovunque. Pertanto nell’orgia comunicativa ci si sono tuffati in
molti, in cerca di visibilità. Ma se vuoi visibilità, se vuoi fidelizzare
l’ascoltatore, il cliente, l’associato, devi spaventarlo. Non mi sta affatto
bene che si arrivi a demonizzare i prodotti altrui per poter vendere i propri.
È molto facile distruggere l’immagine di un settore, ma anche irresponsabile. E
il danno fatto è evidente: quando ci siamo accorti dello scollamento tra
immaginario collettivo e realtà aziendale era tardi.
Allora cos’è l’agricoltura reale?
L’agricoltura è tecnologia, è meccanizzazione, è chimica
responsabile, è professionalità. Io credo che si debba ricominciare da capo:
coinvolgere la società nelle problematiche che l’agricoltura deve risolvere e
responsabilizzarla nei processi decisionali. Altrimenti si finisce con
l’impedire all’agricoltura italiana di produrre e ci si affida totalmente
all’importazione. È una scelta lecita, ma io chiedo: sicuri di voler delegare
all’estero una grossa fetta del nostro approvvigionamento alimentare? A me
sembra rischioso.
E l’agricoltura sostenibile? Per la quale tu ti batti?
Ogni processo produttivo deve essere sostenibile da tre
punti di vista: quello ambientale, quello sociale e quello economico. È così
anche per l’agricoltura. Deve essere sostenibile per l’ambiente; deve esserlo
per la società, che deve conoscere i nostri metodi produttivi ed essere messa
in grado di condividerli con gli agricoltori; deve esserlo economicamente,
altrimenti l’impresa crolla e con essa i posti di lavoro e la produzione di
alimenti e mangimi italiani. Non può mancare nessuno di questi tre requisiti.
Tu come pensi di muoverti per promuoverla?
L’agricoltura sostenibile si ottiene con l’innovazione, la
comunicazione, la condivisione. Ci troviamo in una situazione in cui la
popolazione mondiale sta crescendo a gran ritmo: dobbiamo produrre di più senza
aumentare la pressione sull’ambiente. Per farlo ci serve ogni strumento
disponibile nella “cassetta degli attrezzi” che l’innovazione ci mette a
disposizione: dalla meccanica, alla chimica, alla biologia molecolare. È
proprio da quest’ultima che vengono le innovazioni più importanti: le
biotecnologie applicate al miglioramento genetico ci possono dare piante che
tollerino la carenza idrica, la salinità, le sommersioni. In questo modo
potremo ottenere di più anche dai terreni marginali, poco fertili. Il cambiamento
climatico è un fatto e noi dobbiamo lavorare per prepararci ad affrontarlo.
Oppure dalle biotecnologie possiamo ricavare piante resistenti ai patogeni
fungini, per esempio, così non dovremo più trattare con fungicidi per difendere
il raccolto. Ci sono già degli interessanti studi su cereali. Insomma, se
lasciamo che agricoltori e ricercatori lavorino insieme possiamo ridurre la
chimica in agricoltura, l’utilizzo di acqua, il consumo di suolo.
Da IlPost.it:
http://www.ilpost.it/antoniopascale/2017/11/20/lagricoltura-reale-un-agricoltore-reale/
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