La trasparenza, la tracciabilità e soprattutto la qualità
del cibo sono asset importanti su cui, come Cia – agricoltori italiani, ci
siamo da sempre concentrati, cogliendone il valore e lavorando per giungere
alle giuste normative che le tutelino e soprattutto garantiscano il consumatore
e le imprese. Le ultime in ordine di tempo, quelle del latte, pasta e riso
hanno, in tal senso, una loro validità, anche se nel più ampio progetto
andrebbero inseriti piani di lungo respiro per le filiere che sappiano
garantire, da un lato buoni introiti a chi realizza i prodotti made in Italy,
dall’altro ottima qualità e prezzi di acquisto per chi li consuma. Fermandoci
alle sole etichette, senza guardare al complessivo, si rischia di essere
tacciati di velato protezionismo.
Voglio affidare dunque a queste pagine una mia riflessione,
nella speranza di aprire un proficuo e sereno dibattito.
Il latte e i suoi derivati, la filiera del grano ed il
comparto del riso italiani, con le loro potenzialità, non devono essere
relegati a mero veicolo di comunicazione, puntando esclusivamente
sull’etichettatura, ancorché utile. Del resto, l’equazione etichetta uguale
benefici per produttori e consumatori non è una soluzione algebrica, anzi si
rischia così di creare scappatoie e avere un approccio che, tra l’altro, può
vanificare i risultati ottenuti in Europa negli ultimi decenni sul fronte della
trasparenza alimentare.
Da quando sono stati istituiti negli anni ’90, i marchi Dop,
Igp, e del biologico, questi, infatti, hanno rappresentato la principale
esperienza normativa sul fronte della rintracciabilità, della trasparenza
alimentare e dei controlli, anche grazie al ruolo di garanzia esercitato dai
Consorzi di tutela. Un sistema, quello delle denominazioni di origine, che vede
il nostro Paese leader indiscusso a fronte di 855 riconoscimenti e che non può
essere messo a rischio dal ricorso, soprattutto se eccessivo e mal gestito, di
sistemi di etichettatura non condivisi su scala comunitaria.
In quest’ottica, prendendo ad esempio l’etichetta del latte
italiano, leggendo bene, sia nel provvedimento che, nella circolare
interministeriale che la accompagna, mi sembra di trovare delle incongruenze
rispetto alla sua effettiva applicabilità e alla sua efficacia, soprattutto in
considerazione dell’assenza di un quadro legislativo europeo sul tema. Andando
dietro ad etichette fin troppo complesse si rischia, infatti, di distrarsi, non
cogliendo fino in fondo le due questioni centrali: il latte fresco è veramente
un “core” di prospettiva per il settore in Italia? “Spendersi” così tanto a
Bruxelles per ottenere queste norme non rischia di metterci nelle condizioni di
non avere crediti in Europa? Magari da spendere su temi più decisivi per
l’agricoltura e l’agroalimentare di casa nostra? Il rischio è che le risposte a
questi quesiti non siano positive per agricoltori e consumatori.
Alle volte, si ha l’impressione che la sostanza lasci il
passo all’apparenza, con leggi da cui traggono beneficio propagandistico solo
coloro che le hanno promosse o cavalcate a furor di popolo, senza vantaggi
reali per i destinatari delle stesse norme.
In questo scenario mi sorprende come la politica, invece di
adottare interventi spot, non punti decisa verso una strategia di
valorizzazione del vero Made in Italy, lì dove il valore aggiunto garantirebbe
margini, più ampi, per tutti i soggetti della filiera.
È giunto il momento di guardare oltre e lavorare uniti per
la realizzazione di tale obiettivo. A trarne vantaggio, non sarebbe soltanto
l’agricoltura, ma l’intero sistema socio economico nazionale.
Autore: Dino Scanavino
Fonte: Nientedipersonale.com
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