Nel 2004 Tullio Regge, noto astrofisico dell’Università di
Torino, nel suo libro intitolato “Lettera ai giovani sulla scienza” esordiva
affermando che viviamo nel periodo storico della glorificazione della scienza e
della tecnologia, ma anche di attacchi severi ai loro risultati. Ancora oggi
viviamo in questa atmosfera. Il mondo della ricerca da troppo tempo si è in
parte chiuso in se stesso ed ha usato un linguaggio per addetti ai lavori
trascurando il contatto diretto con l’uomo della strada. A nostro parere dunque
la ricerca pubblica ha lasciato troppo margine alla libera comunicazione così
detta scientifica e/o pseudo scientifica. Una simile informazione induce il
cittadino/consumatore a pensare che in genere tutto va male o quando va bene,
non va così bene come si vorrebbe.
Desideriamo invitare in special modo i giovani a rivolgersi
alla scienza in continua evoluzione e guardare con fiducia al futuro, senza
peraltro cedere alle varie mode. Ad esempio cinquanta anni fa la cibernetica e
i frattali, affermava Regge, sembravano opportunità straordinarie e concrete,
mentre oggi hanno perso molto della loro rilevanza e sono finiti nel
dimenticatoio. Attenzione dunque alle proposte che offrono molto, ma che nel
breve periodo svaniscono nel nulla.
A questo punto vale la pena porre qualche interrogativo per
orientarci nel groviglio di scienza e pseudoscienza.
Da “Pane e bugie” (D. Bressanini, 2010) si rileva che non a
tutti è noto che la quasi totalità delle sostanze chimiche che ingeriamo sono
naturali. Tuttavia una sostanza non è necessariamente più benigna solo perché
l’ha prodotta la natura. Sarebbe bello che fosse così, purtroppo invece è solo
un luogo comune. L’interrogativo è scegliere tra naturale o artificiale. L’idea
che “naturale” equivalga a “sano” oggi è molto diffusa. Anche un prodotto
naturale può essere non sano, cioè non salubre. Ad esempio, un importante
prodotto agricolo come il mais, magari originato in regime biologico, se si
presenta contaminato da un elevato carico di micotossine non si può certo
definire sano.
Ma altri interrogativi si pongono in forma prioritaria
all’attenzione pubblica senza che si sia sempre fatta oggettiva chiarezza:
- Biologico o
agricoltura convenzionale (di precisione) per sfamare il mondo?
- Gli alimenti
biologici nutrono di più?
- Produzione di
cibo e rispetto della biodiversità: due esigenze inconciliabili?
- La spesa a “km 0”
è più sostenibile? Perché non basta calcolare i chilometri che separano il
luogo di produzione dal punto di vendita?
- Organismi
giornalisticamente modificati.
- … prodotto senza
olio di palma.
A proposito di chiarezza, sono da segnalare due interessanti
libri quali “I costi della non scienza” (AA., 2004) e “Vacche sacre e mucche
pazze” (Shiva V., 2001) che discutono l’uno del principio di precauzione e
l’altro del furto delle riserve alimentari globali. I demografi hanno più volte
preannunciato che entro i prossimi 30-50 anni la popolazione del pianeta
aumenterà di altri 2 (forse più) miliardi di persone. E in parallelo, gli agronomi
hanno più volte sottolineato che, oltre all’acqua, le superfici coltivabili
sono diventate un fattore limitante in vista della crescente esigenza di far
fronte ad uno smisurato incremento dei fabbisogni alimentari aumentando le
attuali produzioni globali.
Al fine di ridurre la sfiducia che insorge in coloro che,
trascinati da informazioni non sempre corrette, al momento della scelta per
l’acquisto, si orientano verso scelte immotivate è fondamentale spingere i
ricercatori ad informare correttamente l’opinione pubblica. Oltretutto succede
spesso che tali scelte risultino anche più costose.
Qualche anno fa il National Geographic (Kunzig R., 2014) ha
esaminato in modo approfondito il “dilemma dei carnivori” discutendo, nel
dibattito, di consumo della carne bovina, della mancanza di salubrità, di
nutrienti, di crudeltà, di delizia, insostenibilità, problema tutto americano.
Nel tentativo di fare chiarezza, relativamente a tutto questo, è indispensabile
ricorrere all’assunto ben noto che «il diritto al cibo» resta una semplice
affermazione ideologica se non la si correla al “dovere di produrlo”! Nei
prossimi trent’anni per tenere il passo con la domanda di alimenti, su
sollecitazione della FAO, bisognerebbe produrre il 70-100% in più di cibo.
D’altro canto si deve tenere presente che non vi è attività umana che tanto o
poco non abbia impatto sull’ambiente.
Come già ricordato, al 2050 la popolazione globale sarà
proiettata verso i 10 e più miliardi di persone. Da qui nascono due
inderogabili interrogativi riguardanti il primo la capacità del pianeta di
sostenere questa tendenza, il secondo la disponibilità di risorse fondamentali
per tutti. Consci del fatto che negli anni ’60 eravamo circa 3,5 miliardi, che
all’inizio del nuovo secolo siamo passati da 6 a 6,7 miliardi nel 2015, la FAO
e altri organismi internazionali hanno chiesto di aumentare le produzioni
primarie contenendo o meglio diminuendo l’impatto sull’ambiente. Questo è il
vero obiettivo, il problema dei problemi, che dovremo risolvere.
Esiste una stretta relazione tra tipo di produzione
alimentare e consumo di territorio. La produzione di alimenti di origine
animale richiede un consumo agricolo di 3-4 volte maggiore rispetto a quello
richiesto per la produzione di alimenti vegetali di pari “valore nutritivo”. Le
abitudini alimentari delle popolazioni e dei singoli dipendono da molteplici e
inveterati fattori (geografici, climatici, culturali, ideologici, preferenze
personali…) che sono difficili da modificare ma che vale la pena riconsiderare.
La possibilità e l’abitudine di utilizzare un mix di vari tipi di alimenti, sia
di origine animale che vegetale, in proporzioni e quantità adeguate, appare il
miglior approccio per garantire sia efficacia nutrizionale che «risparmio»
ambientale. Nei riguardi dell'impronta ambientale, questo nuovo approccio
riduce il concetto comune di un grande vantaggio dei vegetali rispetto alla
produzione di alimenti animali, quando i requisiti umani degli aminoacidi
essenziali vengono utilizzati come riferimento.
In conclusione, si sollecitano i ricercatori a impegnarsi
nella diffusione dei loro migliori risultati attivando degli idonei contesti di
divulgazione e arrivando, nelle varie sedi universitarie, all’attivazione di un
nuovo livello di “formazione continua”.
Dunque chi sa parli o, meglio, scriva.
di Giuliano Mosca, Anna Lante e Paolo Tessari
Fonte: Accademia dei Georgofili
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