Gli imprenditori sono perlopiù tentenni. Dopo aver investito
i propri risparmi e quelli dei genitori hanno voglia di lavorare la terra e di
guadagnarsi il pane onestamente. Ma adesso che il nuovo Governo rischia di
cambiare linea hanno il fiato sospeso.
Ad Amsterdam vendeva prodotti tipici pugliesi, con una
laurea in Giurisprudenza in tasca e due soggiorni in Sudamerica alle spalle.
Gli affari andavano bene fino a quando, dopo un paio d’anni, si è sentito dire
“tu cosa fai qua, sei uno straniero, tornatene a casa tua”. Improvvisamente,
Paolo, neanche trent’anni, ha sentito l’odore della campagna in cui è
cresciuto, ha immaginato i trulli, la gente in giro per le piazze, gli amici e
la famiglia. Ha rivisto nella mente la sua città immersa nella Murgia, le radici
affondate nella familiarità e nella socievolezza di quel quadretto quotidiano
del profondo Sud. Paolo ha sentito la nostalgia della terra, degli ulivi. Il
sogno Amsterdam è svanito nel nulla. Ed è tornato a casa a progettare il suo
futuro. E dalla metropoli che vive di cannabis e social club, ha deciso di
tornare a casa proprio per coltivare la canapa.
Con un paio di amici e il sostegno della famiglia si sta
rimettendo in gioco tornando alle origini agricole della sua terra natale.
Vogliono aprire un’azienda agricola e sono andati a scuola di canapa. Si sono
rivolti a Claudio, trent’anni anche lui, dal 2011 promotore della filiera della
canapa. Dopo aver vinto il progetto Principi Attivi della giunta Vendola, con
un finanziamento di 25mila euro a fondo perduto, Claudio Natile ha fondato
CanaPuglia, associazione e impresa che della canapa fa il suo prodotto
principale, nei suoi mille usi. Dai semi ai tessuti, dal biomattone ai prodotti
alimentari, Claudio ha assistito alla crescita felice della pianta demonizzata
dal nome “marijuana”.
Fino a oggi, CanaPuglia ha formato almeno 500 produttori e
coltivatori, accompagnando il processo di espansione. Dai 400 ettari coltivati
in Italia nel 2014 si è passati a oltre 4mila ettari. Nell’ultimo anno e mezzo
sono un migliaio i negozi che vendono le infiorescenze light, quelle che hanno
un contenuto di Thc legale, sotto lo 0,2%. Vengono vendute per uso cosiddetto
tecnico o da collezione tra i 20 e i 25 euro al grammo, in bustine
confezionate. Un giro d’affari di quaranta milioni di euro l’anno. A renderlo
possibile la legge n. 242 del 2016 che contiene le “Disposizioni per la
promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa” che
ha disciplinato (pur in modo non troppo dettagliato) il settore. Un business
che negli Stati Uniti permette ricavi da miliardi di dollari, considerato anche
l’indotto. E che farebbe dell’Italia il ricchissimo Colorado, che con la canapa
fa incassare al fisco 5 mln di dollari al mese. Sparsi nelle ventuno regioni
italiane, si sono avvicinati al settore centinaia di trentenni, tutti attratti
(a onor del vero) dal fascino ludico della pianta ma allo stesso tempo vicini
al desiderio di un ritorno alla terra. Cosmesi, infusi, saponi, prodotti
alimentari, tessuti, tutto si produce da ogni parte della canapa. Il maiale
vegetale, lo chiamano. Non si butta niente. E se il Consiglio superiore della
Sanità ha rilasciato un parere (non vincolante) negativo al Ministero della
Salute, richiesto dall’ex ministro Lorenzin, d’altro canto i giovani, seppur
preoccupati, non si fermano. E in questo sono sostenuti dalle maggiori
associazioni di produttori, da Coldiretti, a Confagricoltura, e persino dal
Codacons. Nel parere si legge che è sconsigliata la libera vendita di cannabis
light perché, in ogni caso, produce effetti psicotropi su chi ne fa uso. Il
Codacons rincara la dose replicando che anche alcol e fumo fanno male ma sono
controllati e venduti dal monopolio di Stato. Finora il ministero del Governo
gialloverde ancora tace e rimanda. Ma se si dovesse fare un passo indietro e
opporre un veto in più, che fine farebbero il migliaio di negozi e le centinaia
di produttori che hanno investito in canapa? Un investimento, quello degli
shop, da almeno ventimila euro per imprenditore.
Del resto l’Italia non è nuova a questa coltivazione: negli
anni Quaranta il Belpaese era il secondo produttore al mondo di canapa dopo la
Russia, con i suoi 100mila ettari coltivati, con l’industria dei tessuti
naturali che fluttuava nel benessere dell’economia nazionale. E lo ricorda bene
la signora Giovanna, una sessantina d’anni, figlia di un canapicoltore
proveniente dalla Campania, medaglia d’argento per la stessa produzione dopo
l’Emilia Romagna. “Ricordo ancora quando pettinavamo la stoppa, seguendo i consigli
della mamma – racconta Giovanna, ferma davanti allo stand di CanaPuglia
allestito a Melpignano, in occasione della Notte della Taranta - per lei era
più sano impegnarci nella cura della natura, della terra, piuttosto che
lasciarci andare per strada, ciondolando, senza imparare nulla”.
Autore: Cristina Laratro
Fonte: Radifuture Magazine
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