Un tempo a Pontelandolfo, come in altri paesi, soprattutto
in quelli a vocazione agro pastorale del nostro Sannio, si faceva largo uso
delle funi, in quasi tutti i mestieri.
I contadini e i pastori, ad esempio, le usavano per legare
le bestie al pascolo, per assicurare il carico al basto, per allungare le
briglie, per legare la legna in fasci, anche per costruire recinti mobili e
occasionali dove tenere chiuse le bestie durante la notte e poterle meglio
vigilare contro malviventi e lupi famelici. I muratori le utilizzavano per
tirare su il materiale di lavoro. Il carrettiere faceva uso delle funi per legare
le merci che trasportava sul carretto e per azionare il freno, cosiddetta in
gergo la mart’llìna. Il sagrestano utilizzava le corde per azionare le campane
della chiesa. La fune, insomma, era un attrezzo indispensabile per lo
svolgimento di molteplici attività.
Il funaio, a Pontelandolfo r f’nàr’, valente artigiano,
abile nel saper coordinare mani e piedi, realizzava le funi a mano, utilizzando
come unico attrezzo di lavoro, una grande ruota in ferro e legno, di circa un
metro di diametro, a doppia faccia, con al centro una manovella, collegata
all’aspo mediante una puleggia, cosiddetta rac’, a quattro rotelle, che
giravano tramite tre corde intorno alla ruota, composta da quattro filatoi
muniti di ganci. Il tutto era fissato su una pesante base di legno.
La materia prima necessaria era la stoppa derivata dalla
canapa grezza, che, dopo pettinata, veniva legata alla ruota e mentre girava,
si filava per raffinare il prodotto e dare la giusta sezione al filo. E, così,
filo dopo filo, attraversando la cosiddetta pigna, un attrezzo a quattro incavi
dove passavano i fili che avvolgendosi ne diventavano uno soltanto. La pigna
veniva abilmente azionata con una mano dal funaio, mentre con l’altra filava.
Il filo generato, veniva avvolto alla ruota per dare origine all’embrione della
corda.
Rotoli di spago venivano attorcigliati con il girare
continuo della ruota, azionata per imprimere il movimento alle pulegge.
Il movimento della ruota doveva essere eseguito con tempismo
e metodico ritmo. Se troppo lento, non faceva attorcigliare bene la fune, se
troppo veloce non permetteva l’inserimento della filaccia.
Il lavoro, di solito a conduzione familiare, si svolgeva
all’aperto, perché c’era bisogno di molto spazio. La lunghezza dello spazio era
molto importante in quanto l’artigiano, procedendo a ritroso, doveva guidare
l’intreccio della corda in base alle varie misure, dalla più corta alla più
lunga.
Davanti alla ruota occorreva una superficie libera molto
estesa, per consentire la stesura dei filati e man mano che la corda si formava
veniva arrotolata attorno alla ruota, fino a che non si raggiungeva la
lunghezza desiderata.
Prima della lavorazione le matasse filacee venivano immerse
a bagno nell’acqua in vasche di pietra. Ad avvenuta torsura le corde venivano
stese ad asciugare ad una certa altezza da terra.
L’ultimo mastro funaio, e forse quello più famoso di
Pontelandolfo, è stato Tullio Albini, che con l’aiuto della moglie Elda e dei
cinque figli Vittoria, Pasqualino, Giuseppe, Donato e Armida, la cui preziosa
collaborazione si rendeva necessaria nelle varie fasi articolate del
procedimento, dagli anni Sessanta e fino alla fine degli anni Ottanta, ha
prodotto chilometri e chilometri di corde, molte delle quali ancora oggi,
resistenti e forti, vengono utilizzate nelle attività contadine di
Pontelandolfo e dei paesi del circondario, i cui abitanti acquistavano le funi
di Tullio, le migliori della provincia, presso la bottega dell’artigiano o, più
spesso, in occasione delle fiere e dei mercati.
Gabriele Palladino
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