I dati Istat 2015 non lasciano spazio ad alcuna
interpretazione; su 32 miliardi di euro del settore agricolo (che corrispondono
al 2% del valore aggiunto complessivo prodotto nel nostro Paese) l’incidenza di
questa economia sommersa è pari al 15,4%, quindi superiore al sommerso
dell’intera economia nazionale (13%). Un fatturato che oscilla tra i 14 ed i 17
miliardi di euro. Quindi oltre al danno per questa manodopera di braccianti
agricoli sottopagati anche la beffa per una evasione ai danni dello Stato (tutti
noi) di ingenti proporzioni.
Questo fenomeno, a dispetto di quello che si possa pensare,
non ha regionalità. Diffuso su tutto il territorio nazionale, con paghe di 400
euro al mese per un’intera giornata di lavoro, a cui nemmeno la nuova legge sul
caporalato (legge 14 settembre 2011, n. 148) ha rappresentato un deterrente
valido.
Il fatto che nel nostro Paese si pensi di risolvere tale
questioni (come tante altre) solo con disposti di legge la dice lunga come,
nello specifico, questo fenomeno non possa essere debellato così facilmente.
Occorrono ricette diverse che non possono essere di natura esclusivamente
legislativa e penale ma di natura strutturale.
Spieghiamo meglio questo concetto. La questione va risolta a
monte, attraverso una differente rivisitazione del modello agricolo; con una
ricomposizione dei modelli agricoli e dei loro nuclei di lavoro e del loro
rapporto con le unità aziendali. Per mezzo di una valorizzazione di questi
nuclei (soprattutto le famiglie) perfettamente equilibrati alle ampiezze
aziendali; attraverso percorsi di autoapprendimento collettivo e di educazione
e formazione all’intraprendere in modo solidale ed innovativo.
Se non si attiva questo processo in maniera totalmente
diversa non troveremo mai le soluzioni per adempiere, addirittura al precetto
costituzionale contenuto nell’art. 44 della Costituzione: “Al fine di
conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti
sociali, la legge impone (…) la trasformazione del latifondo (…)”. Un latifondo
che, negli ultimi quarant’anni, si è ricomposto in forme nuove, legate ad un
modello agricolo assoggettato ai mercati ed alla GDO e in netta antitesi, non
solo col disposto costituzionale (… razionale sfruttamento del suolo …) ma
anche con i moderni concetti di una agricoltura ecosostenibile. Un latifondo
dove mafie e grandi interessi sono più potenti dello Stato.
La stessa FAO ha sottolineato come, nel mondo, nove su dieci
delle 570 milioni di aziende agricole sono gestite da famiglie, rendendo quella
familiare la forma prevalente di agricoltura, e di conseguenza anche un fattore
potenzialmente cruciale di cambiamento verso il raggiungimento della sicurezza
alimentare, l’eliminazione della fame ed un criterio di sicurezza ambientale
delle produzioni agricole. Su questo le ultime pubblicazioni dell’ONU sono
state più che esplicite.
Il caporalato è solo una delle manifestazioni di questo
modello agricolo a cui lo Stato, e quindi la sua politica, è stato totalmente
assente, pensando di arginare la falla della diga con la cera pongo.
Autore: Guido Bissanti
Fonte: Un Mondo Ecosostenibile
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