Il 1° marzo 1968 ha luogo per la prima volta una
manifestazione di protesta nei confronti del presidente della Coldiretti, Paolo
Bonomi, e del ministro dell’Agricoltura, Franco Restivo. Ne sono protagonisti
alcune centinaia di agricoltori, che, alla Fiera internazionale di Verona,
prendono d’assedio il tavolo della presidenza di un convegno a cui sono stati
sollecitati a partecipare dalla stessa organizzazione. Così inizia il lungo
Sessantotto delle campagne.
Il grande esodo dalle campagne verso le città e dal
Mezzogiorno verso il triangolo industriale non aveva spento la voglia dei
contadini di partecipare alla vita del Paese. Anzi era emerso un protagonismo
attento ai problemi nuovi e inediti, affiorati a seguito della “grande
trasformazione”. E tale aspetto ora lo differenzia enormemente dal protagonismo
che si era espresso in occasione delle lotte per la terra. Sono rimasti nelle
campagne contadini che adesso posseggono finalmente il loro podere come veri
imprenditori. L’hanno comprato o lo stanno riscattando oppure lo conducono in
affitto e pagano un canone più equo. Ma si accorgono che il maggior grado di
autonomia e libertà che deriva dalle condizioni più stabili di possesso della
terra non si traduce in un’espansione soddisfacente dell’iniziativa economica.
La politica dei prezzi praticata da Bruxelles garantisce
migliori condizioni di vita ma impedisce di crescere dal punto di vista
imprenditoriale. All’agricoltore viene chiesto solo di produrre di più e se poi
non vende quello che realizza non importa, perché è in parte comunque
garantito. Non ci sono servizi che aiutino gli agricoltori ad utilizzare meglio
le risorse del territorio, a diversificare le attività aziendali, a costruire
relazioni economiche con le industrie di trasformazione e le imprese di commercializzazione
di reciproca soddisfazione. Non ci sono azioni formative con cui migliorare le
proprie conoscenze e competenze. Mancano rapporti stabili tra i centri di
ricerca e sperimentazione e le aziende agricole per evitare che il progresso
tecnico sia frutto solo dell’iniziativa dell’industria produttrice di mezzi
tecnici e delle strutture commerciali. Non ci sono strumenti capaci di cogliere
nuovi bisogni sociali che l’agricoltura può soddisfare da tradurre in
un’effettiva domanda di beni e servizi e in nuovi mercati da costruire.
L’associazionismo imposto dai regolamenti comunitari in
Italia è gestito quasi interamente dal sistema di potere che gravita intorno
alla Coldiretti e alla Federconsorzi. Non costituisce, dunque, uno spazio di
libera partecipazione per accrescere la dimensione economica della propria
impresa. Si presenta, invece, sotto forma di un insieme di agenzie che
gestiscono le politiche protezionistiche e sono fondate su meccanismi
burocratici imposti dalla pubblica amministrazione.
Manca in generale una preparazione adeguata degli
amministratori locali per organizzare i servizi civili e migliorare la
viabilità nelle campagne, per avvicinare le condizioni di vita delle aree
rurali a quelle delle zone urbane. Le differenze che permangono tra vita in
città e vita in campagna vengono ora avvertite come un’ingiustizia non più
motivabile nel nuovo contesto produttivo ed economico dell’agricoltura.
Gli effetti distruttivi di un “boom economico” non governato
Non si avverte l’urgenza di politiche pubbliche volte a
mitigare il rischio idrogeologico connesso alla “grande trasformazione” e alle
profonde modifiche negli usi del suolo e delle acque che si concretizzano a
seguito della crescita dell’urbanizzazione e delle aree industriali nelle pianure
e dei fenomeni di abbandono nelle alture collinari e montane. E gli eventi
catastrofici non si fanno attendere: l’alluvione del 1954 nel Salernitano che
causa oltre 300 morti; la frana che nel 1963 precipita nella diga idroelettrica
del Vajont e provoca l’evento idrogeologico più grave nella storia dell’Italia
unita, uccidendo 2 mila persone; la frana di Agrigento del 1966 che distrugge
una parte consistente della città abusivamente edificata; l’alluvione del 1966
che colpisce Firenze e che ha come causa principale la costruzione avventata di
due dighe idroelettriche; l’alluvione del 1968 nel Biellese che provoca oltre
70 vittime e trascina con violenza fino a Vercelli le spole dei lanifici
Valmossesi incautamente edificati sugli argini di un corso d’acqua.
Tali episodi sono gli effetti luttuosi e distruttivi di un
“boom economico” non governato. La gestione del territorio è, difatti, un
aspetto del tutto marginale nell’agenda politica. E tutto ciò produce sgomento
e spaesamento nelle campagne, dove invece è ancora viva la sensibilità alle
pratiche secolari di manutenzione della terra. Sconcerta soprattutto
l’incapacità delle classi dirigenti di ricordare che l’agricoltura è
innanzitutto il grande archivio dove si conserva e si aggiorna la capacità
degli uomini di riprodurre non solo gli agrosistemi ma anche l’insieme delle
interrelazioni tra città e campagne.
La nuova condizione dei contadini
La condizione in cui molti contadini vengono ora a trovarsi
mette in discussione due elementi di fondo della loro condizione precedente. Il
primo è l’autonomia nell’introdurre il progresso tecnico in azienda e
nell’organizzare le proprie relazioni economiche. Il secondo è la libertà di
scegliere processi produttivi e attività in un ventaglio ampio di opportunità
offerte dalle economie locali e informali.
Ma questi condizionamenti derivano direttamente dal
progresso che si è realizzato nelle campagne e si possono attenuare solo con un
protagonismo degli agricoltori sul terreno economico e con politiche che
accompagnino e rafforzino tale protagonismo. In realtà, le politiche pubbliche
che si realizzano svolgono proprio una funzione opposta perché sono improntate
ad una logica assistenzialistica, tipica delle misure dei primi anni Cinquanta.
Le forme prevalenti d’intervento pubblico con riferimento ai
mercati agiscono solo come sistema di garanzia e non costituiscono
un’opportunità di crescita. Man mano che si rafforzano sul piano professionale e
imprenditoriale, gli agricoltori avvertono sempre più l’importanza di questi
nuovi problemi e fanno fatica a seguire le logiche della contrapposizione
politica proprie degli anni della “guerra fredda”, che tra l’altro si
riferivano a problemi che non esistono più o che si sono molto attenuati.
Non ci sono più i “capipopolo”
Del resto, la maggior parte dei “capipopolo” delle lotte
contadine degli anni Quaranta, essendo i più svegli e intraprendenti, o sono
emigrati definitivamente, oppure si sono trasformati in artigiani o in piccoli
imprenditori industriali.
Nel Mantovano, Steno Marcegaglia, figlio di un emigrante e
impegnato nell’Alleanza dei contadini, nel 1959 aveva deciso di avviare
l’attività imprenditoriale nella metallurgia. Trasformerà in un trentennio la
piccola azienda in un gruppo internazionale, leader nella lavorazione dell’acciaio.
Nelle organizzazioni agricole molti dirigenti sono stati,
pertanto, sostituiti da agricoltori più giovani e meno legati ideologicamente
ai partiti di riferimento. Ciò permette uno scambio più libero a livello di
base tra le organizzazioni professionali. E la conseguenza è una richiesta
sempre più pressante che si leva dagli agricoltori verso le rispettive
strutture di rappresentanza per realizzare una maggiore autonomia dai governi,
dai partiti e dai sindacati e organizzare la vita interna in modo tale che i
gruppi dirigenti debbano rendere conto del proprio operato. Nella Coldiretti
soprattutto, ma anche nelle altre organizzazioni, dove vigono pratiche
verticistiche e gerarchiche, ciò che sta accadendo sconvolge la vita interna e
genera crepe che si faranno sempre più vistose negli anni a seguire.
Il disagio dentro la Coldiretti
I primi mesi del Sessantotto delle campagne sono
caratterizzati, per la sua forte valenza simbolica, dalla manifestazione di
protesta nei confronti del presidente della Coldiretti, Paolo Bonomi, e del
ministro dell’Agricoltura, Franco Restivo. Ne sono protagonisti alcune
centinaia di aderenti alla Coldiretti, che il primo marzo, alla Fiera
internazionale di Verona, prendono d’assedio il tavolo della presidenza di un
convegno a cui sono stati sollecitati a partecipare dalla stessa
organizzazione. Lanciando cartocci di tetrapak pieni di latte, uova e ortaggi
di vario tipo e dimensione, non smettono il tiro a bersaglio fino a quando non
intervengono le forze dell’ordine.
Essi provano nei confronti della propria organizzazione un
senso di delusione e, soprattutto, si sentono ingannati per il fatto di essere
stati a lungo sollecitati dalla stessa Coldiretti a votare un partito (la Dc),
che non mostra più di riservare la tradizionale attenzione verso il loro mondo.
Gli agricoltori incominciano a comprendere che la scelta di Bonomi di
attrezzare la Coldiretti come una sorta di “partito contadino” associato alla
Dc non paga più. Alle manifestazioni che, da qualche anno e con crescente
intensità, l’Alleanza dei contadini organizza in ogni parte d’Italia,
partecipano, sempre più numerosi, anche molti agricoltori aderenti alla
Coldiretti.
La manifestazione dei sessantamila
Per tutta la primavera del 1968, la mobilitazione nelle
campagne diviene sempre più viva ed estesa. E sfocia, per iniziativa
dell’Alleanza, nella “manifestazione nazionale dei sessantamila”, che si svolge
il 5 luglio a Roma. Le parole d’ordine vanno dal “riequilibrio dei rapporti
economici tra l’agricoltura e l’industria” al “miglioramento delle condizioni
civili nelle campagne”, dalla “parità delle prestazioni previdenziali e
sanitarie” ai “contratti agrari più equi”. Ma al di là delle rivendicazioni più
immediate, si avverte il senso di aspirazione profonda a cambiamenti
significativi delle stesse modalità della politica e dei rapporti tra cittadini e
governanti, la cui portata dirompente sfugge agli stessi organizzatori della
manifestazione.
Grande è l’impressione che suscita nella capitale il lungo
corteo di agricoltori coi canti, i prodotti, i colori, gli animali e i mezzi
meccanici delle mille campagne italiane. Si affacciano alle finestre e scendono
in strada a salutarli centinaia di romani, che da quel mondo e dalle più
disperse contrade, anche in anni recentissimi, sono giunti per occupare un
posto di lavoro negli uffici pubblici.
Si fanno vedere anche gli studenti, che a febbraio avevano
occupato la Facoltà di Architettura e si erano scontrati con la polizia a Valle
Giulia. Distribuiscono ai coltivatori volantini che contengono parole d’ordine
inneggianti alla socializzazione della terra; ma non già perché vogliono
trasferire nelle campagne italiane il modello collettivistico esistente in
Unione sovietica. I movimenti studenteschi sono, infatti, fortemente critici
con l’autoritarismo e la restrizione delle libertà individuali che
caratterizzano i Paesi comunisti. E non è a quel modello che essi guardano nel
formulare i loro slogan per la manifestazione contadina. È piuttosto la lettura
dei rappresentanti della Scuola di Francoforte ad influenzarli. In particolare,
un loro esponente di spicco, Theodor Adorno, considera la famiglia contadina e
il villaggio come contesti intrinsecamente incapaci di favorire l’emancipazione
e la sprovincializzazione degli individui. Sicché per gli studenti solo un
intervento esterno e una forma socializzante, come appunto la comune,
potrebbero permettere di superare i limiti delle forme di vita borghigiane e
rurali. È un modo per ribadire la presa di distanza dalla società tradizionale
e dalle sue forme sociali autoritarie, ma anche per evidenziare il significato
emancipante e liberatorio della cultura e della formazione insiti nella loro
scelta di frequentare l’università. E i contadini, venuti a Roma a manifestare,
sanno cogliere negli studenti quest’ansia di libertà e perciò dimostrano nei
loro confronti affetto e simpatia.
Il lungo ciclo del Sessantotto delle campagne fa emergere
una forte domanda di cambiamento da parte di una pluralità di nuovi soggetti
sorti a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Non solo imprenditori agricoli
professionali e a tempo parziale, ma anche tecnici, professionisti, operai
specializzati, artigiani vivono nei territori rurali e chiedono a gran voce
forme di rappresentanza politica e sociale capaci di affrontare i nuovi termini
dello sviluppo.
Ma né i partiti, né le organizzazioni sociali sanno
rispondere a questa domanda di rinnovamento adeguando la propria cultura
politica, i propri programmi e le proprie strutture. È soprattutto carente
un’analisi delle modificazioni culturali, economiche, sociali avvenute nelle
campagne; e ciò impedisce di cogliere le interrelazioni tra i diversi settori
produttivi, la pluralità dei soggetti sociali e i loro bisogni, le esigenze
delle imprese agricole che producono per il mercato e le potenzialità
dell’agoalimentare nel promuovere lo sviluppo dei sistemi territoriali.
Intorno ai problemi ambientali incomincia a prendere forma
una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove
sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti e sta per nascere
così quel fenomeno – tipico dei paesi industrializzati – definito come «nuova
ruralità». Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica
affrontano in termini nuovi il problema del rapporto tra uomo e natura:
Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge
l’allarme per la scarsità di tale risorsa, e Rossi-Doria redige la relazione
conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo in cui
prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della
montagna.
Giungono dagli Stati Uniti le idee dei movimenti che avevano
sostenuto il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel Wildlife
Restoration Act del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt aveva ritenuto
di riparare a una politica d’indifferenza verso lo stato di conservazione della
natura, e in particolare delle acque e delle foreste. Idee che si rafforzano con il principio di
responsabilità di cui ha parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore
dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica
dei valori in modo tale che ogni individuo possa agire nel rispetto di se
stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale vive l’uomo.
Alcuni avvertono l’esigenza di integrare tali apporti
culturali di stampo anglosassone con la nostra cultura tecnico-scientifica,
agronomica ed economico-agraria, che da tempo si cimentava, mediante un
approccio aperto ad altre discipline, come la sociologia e le scienze
dell’educazione, nell’accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire
i fenomeni negativi con cui si era manifestata la crisi ecologica. Un filone
culturale combattuto, ridimensionato e ostacolato dalle forze dominanti, benché
fosse erede di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo
equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni
conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della
civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la
configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche. Ma
ancora oggi questa ricucitura culturale ancora non è avvenuta per poter avviare
seriamente un ripensamento delle nostre idee di sviluppo e rimarginare la
frattura ecologica che si produsse tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo
scorso.
Autore: Alfonso Pascale
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