lunedì 26 maggio 2014

Ortofrutta, voglia di export

«Non è la specie più forte che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più ricettiva ai cambiamenti». Da questa massima darwiniana prende le mosse Unaproa, la principale unione italiana dei produttori ortofrutticoli, che celebra il suo ventesimo compleanno dedicando l’assemblea annuale all’internazionalizzazione.
«Adeguarsi al cambiamento – ha dichiarato il presidente Ambrogio De Ponti – è indispensabile per sopravvivere e restare competitivi. In uno scenario nazionale e mondiale completamente mutato e in movimento chi resta fermo è perduto». E noi italiani un po’ perduti lo siamo. Il primo passo da compiere per uscire dallo stallo è capire dove ci troviamo. A livello nazionale, è stato ricordato, i consumi di frutta e verdura hanno subito un tracollo nell’ultimo decennio. Nel 2013, secondo dati Istat/Cnel, le famiglie hanno acquistato 100 kg di prodotti ortofrutticoli in meno rispetto al 2000. Le persone che assumono quotidianamente frutta e verdura sono una minoranza, specie tra i giovani, e per ora non sembra profilarsi all’orizzonte alcuna ripresa.
Preso atto della crisi del mercato domestico, diventa irrinunciabile guardare fuori. Ma come? E dove? I dati presentati al convegno, se da un lato confermano le difficoltà delle nostre aziende di approdare oltre confine, dall’altro mostrano l’esistenza di un enorme potenziale, una miniera ancora in larga parte da sfruttare. «Nell’ultimo decennio – ha spiegato Fabio Del Bravo di Ismea – il mercato mondiale dell’ortofrutta è cresciuto moltissimo, ma non siamo riusciti a intercettare questa espansione». I dati sono evidenti: sul fronte ortaggi ci troviamo oggi al sedicesimo posto nella classifica mondiale dei Paesi esportatori, con una quota del 2% sul totale e con i primi otto Paesi che detengono i 2/3 della fetta; in 10 anni le esportazioni mondiali sono cresciute del 40%, quelle italiane dell’11%.

Va un po’ meglio per la frutta: ci troviamo al sesto posto, con una crescita del 21% delle esportazioni nel decennio, sempre però a fronte di un +40% globale. «Chiaramente ci sono situazioni molto diverse a seconda dei prodotti: però in generale non riusciamo a sfruttare il prestigio del made in Italy e siamo troppo concentrati su pochi clienti: più della metà del nostro export è diretto a cinque nazioni, il 70% all’Ue».

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