«Non è la specie più forte che sopravvive, né la più
intelligente, ma quella più ricettiva ai cambiamenti». Da questa massima
darwiniana prende le mosse Unaproa, la principale unione italiana dei
produttori ortofrutticoli, che celebra il suo ventesimo compleanno dedicando
l’assemblea annuale all’internazionalizzazione.
«Adeguarsi al cambiamento – ha dichiarato il presidente
Ambrogio De Ponti – è indispensabile per sopravvivere e restare competitivi. In
uno scenario nazionale e mondiale completamente mutato e in movimento chi resta
fermo è perduto». E noi italiani un po’ perduti lo siamo. Il primo passo da
compiere per uscire dallo stallo è capire dove ci troviamo. A livello
nazionale, è stato ricordato, i consumi di frutta e verdura hanno subito un
tracollo nell’ultimo decennio. Nel 2013, secondo dati Istat/Cnel, le famiglie
hanno acquistato 100 kg di prodotti ortofrutticoli in meno rispetto al 2000. Le
persone che assumono quotidianamente frutta e verdura sono una minoranza,
specie tra i giovani, e per ora non sembra profilarsi all’orizzonte alcuna
ripresa.
Preso atto della crisi del mercato domestico, diventa
irrinunciabile guardare fuori. Ma come? E dove? I dati presentati al convegno,
se da un lato confermano le difficoltà delle nostre aziende di approdare oltre
confine, dall’altro mostrano l’esistenza di un enorme potenziale, una miniera
ancora in larga parte da sfruttare. «Nell’ultimo decennio – ha spiegato Fabio
Del Bravo di Ismea – il mercato mondiale dell’ortofrutta è cresciuto
moltissimo, ma non siamo riusciti a intercettare questa espansione». I dati
sono evidenti: sul fronte ortaggi ci troviamo oggi al sedicesimo posto nella
classifica mondiale dei Paesi esportatori, con una quota del 2% sul totale e
con i primi otto Paesi che detengono i 2/3 della fetta; in 10 anni le
esportazioni mondiali sono cresciute del 40%, quelle italiane dell’11%.
Va un po’ meglio per la frutta: ci troviamo al sesto posto,
con una crescita del 21% delle esportazioni nel decennio, sempre però a fronte
di un +40% globale. «Chiaramente ci sono situazioni molto diverse a seconda dei
prodotti: però in generale non riusciamo a sfruttare il prestigio del made in
Italy e siamo troppo concentrati su pochi clienti: più della metà del nostro
export è diretto a cinque nazioni, il 70% all’Ue».
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