lunedì 3 giugno 2019

Cannabis light: la Cassazione mette al bando le rivendite


Con una sentenza che si preannuncia epocale, le sezioni unite della Corte di Cassazione penale hanno dichiarato reato la commercializzazione dei prodotti a base di cannabis light diversi da quelli indicati dalla Legge n. 242/2016.
In forza di tale pronuncia, quindi, tutti i punti vendita proliferati negli ultimi anni diventano automaticamente fuori legge, mettendo in serio pericolo gli investimenti effettuati dalle aziende.
La decisione della Cassazione
In attesa del testo definitivo della sentenza, con l’informazione provvisoria n. 15, i giudici di legittimità hanno stabilito che la commercializzazione di cannabis sativa L, e in particolare di foglie, infiorescenze, olio e resina ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rappresenta un’attività ricompresa nell’ambito di applicazione della L. n. 242/2016.
Pertanto, tali cessioni integrano il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990, il quale prevede, per chi “coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope”, la pena della reclusione da sei a venti anni o la multa da euro 26.000 a euro 260.000.
Secondo la Cassazione, infine, tale reato non è integrato nel caso in cui i prodotti commercializzati, in concreto, siano privi di efficacia drogante.
La previsione normativa
A onor del vero, la tesi sostenuta dai giudici trova il suo fondamento nel testo della L. n. 242/2016, dove, all’art. 2, si stabilisce che è lecita l’attività di coltivazione delle varietà di canapa incluse nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, istituito ai sensi dell'articolo 17 della direttiva n. 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002.
La canapa prodotta, in base a quanto previsto della norma, deve essere utilizzata per scopi precisi, tassativamente previsti dalla legge, ossia per:
          alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
          semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
          materiale destinato alla pratica del sovescio;
          materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
          materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
          coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
          coltivazioni destinate al florovivaismo.
Pertanto, evidenzia la Cassazione, non è concessa la commercializzazione della canapa, né tantomeno quella di foglie, infiorescenze, olio e resina derivati dalla canapa legalmente coltivata: tale attività rappresenta un’illegittima estensione dell’area di applicazione della sopra richiamata disciplina, che, va ricordato, introduce un’eccezione rispetto al generale divieto di vendita di sostanze psicotrope di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990.
La Cassazione non prende voti
Da quanto anticipato dalla Cassazione, pare che la sentenza, seppur estremamente rigorosa, sia nel merito puntuale e aderente a quelle che erano le finalità e le disposizioni della norma.
Le conseguenze di tale decisione, però, potrebbero essere apocalittiche per un settore che, dall’approvazione della L. n. 242/2016, ha visto una crescita esponenziale e che, nel 2018, ha raggiunto un giro d’affari di 150 milioni di euro ed occupato oltre 10.000 addetti.
Proprio per questo, appaiono inopportune le modalità e le tempistiche di questa decisione, la quale, in un Paese normale, avrebbe dovuto essere presa tempestivamente dal Governo, il quale si sarebbe dovuto prendere anche la responsabilità delle conseguenze che, il mettere fuori legge la vendita della canapa legale (e già questo è un ossimoro) dopo averla lasciata proliferare, produrrà.
Invece, la Cassazione non prende voti e non dipende dall’approvazione del popolo: così il rischio di eliminazione di un intero comparto produttivo resta senza un padre, mentre regna l’incertezza tra gli operatori che, ora, attendono di scoprire, sulla loro pelle, quali saranno le conseguenze di questa importante decisione.
Fonte: Consulenza Agricola.it


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